Il posto alla Regione Lazio per la moglie di Palamara

Giovanna Remigi vinse un bando per dirigente “esterno” nell’ente guidato dal leader dem nel 2015 e ricoprì il ruolo per 30 mesi.

Il posto alla Regione Lazio per la moglie di Palamara

La moglie del pm Luca Palamara, Giovanna Remigi, è stata per quasi tre anni dirigente esterna della Regione Lazio guidata da Nicola Zingaretti. Un ruolo ricoperto dal 2015 al 2017 nell’ufficio staff del direttore Coordinamento del contenzioso nella Direzione Salute e Politiche Sociali alla cifra di 78.000 euro l’anno più retribuzione di risultato.

Prima di ottenere un contratto triennale all’Agenzia Italiana del Farmaco nel 2017, quando ministro della Salute del governo Renzi era Beatrice Lorenzin.

L’incarico è arrivato nel febbraio 2015, periodo in cui – secondo quanto riportato da L’Espresso – stando alle dichiarazioni dell’avvocato Giuseppe Calafiore sarebbero stati forti i legami fra il lobbista Fabrizio Centofanti e diversi esponenti della Regione Lazio, fra cui l’ex capo di Gabinetto di Zingaretti, Maurizio Venafro, dimessosi nel marzo 2015 in seguito all’inchiesta “Mondo di Mezzo” e condannato in Appello a 1 anno di carcere per turbativa d’asta. Centofanti, secondo i magistrati della Procura di Perugia, fra il 2015 e il 2017 avrebbe pagato a Palamara e a una sua amica alcuni soggiorni-vacanza, oltre a benefit di vario genere.

Rif: https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2019/06/07/il-posto-alla-regione-lazio-per-la-moglie-di-palamara/5237561/

Quella rete di magistrati al servizio del governo Renzi (PM Roberto Rossi)

Al commissario Cantone gli arbitrati con i risparmiatori. Tra i consulenti spuntano altri due pm Rossi di Arezzo e Natalini di Siena: seguono le inchieste sulle banche imbarazzanti per l’esecutivo.

…Quelli chiave spesso finiscono tra i consulenti dell’esecutivo. Si è visto con il procuratore capo di Arezzo Roberto Rossi, che mentre indaga su Banca Etruria dà pareri giuridici a Palazzo Chigi. Se ne occuperà il Csm, che proprio ieri ha accolto la richiesta del laico Pierantonio Zanettin…

Rif:http://www.ilgiornale.it/news/politica/rete-magistrati-servizio-governo-1205720.html

Tutte le bugie del Pm Roberto Rossi sul caso Boschi – Banca Etruria

Dal ministro a suo padre, dal pm all’avvocato, lo scandalo che imbarazza il Governo è pieno di omissis.

È ancora buio quando tre marescialli e un luogotenente della Guardia di finanza bussano alla porta di una villa alle porte di Laterina, piccolo borgo sperso nella campagna aretina. È il 24 marzo 2010. Sono le 7 del mattino. Gli agenti del Nucleo di polizia tributaria mostrano il tesserino e si presentano a Pier Luigi Boschi, padre di Maria Elena, futuro ministro delle Riforme. Esibiscono il «decreto di perquisizione locale e personale» firmato dall’allora procuratore di Arezzo, Carlo Maria Scipio, e dal pm Roberto Rossi. Poi notificano all’uomo il provvedimento dell’autorità giudiziaria.

– LEGGI ANCHE: I pasticci del signor Boschi

Boschi è indagato per turbativa d’asta in un’inchiesta che vede anche l’ipotesi di riciclaggio a carico di altre persone. L’incanto cui l’atto si riferisce è quello della Fattoria di Dorna, un podere di 303 ettari venduto il 12 ottobre 2007 dall’Università di Firenze alla «Valdarno superiore», la cooperativa guidata da Boschi dal 2003 al 2014. Assieme a Boschi, al momento della perquisizione, ci sono la moglie, Stefania Agresti, e due figli: Pier Francesco ed Emanuele. Manca invece Maria Elena. Lei lavora in un’affermato studio legale di Firenze. Mantiene però la residenza nella villa di famiglia a Laterina.

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Pm Roberto Rossi

I quattro finanzieri chiedono a Pier Luigi Boschi se vuole farsi assistere da un avvocato. Lui, però, spiega che «non intende avvalersi di tale facoltà». Consegna spontaneamente ai militari alcune cartelle di documenti e una copia fotostatica dell’assegno di 95 mila euro «emesso da Saporito Francesco all’ordine della Valdarno superiore». Vengono poi controllate le due auto in garage. Concluse le ricerche nei tre piani della casa, i finanzieri passano a perquisire le sedi di due società amministrate da Boschi nella zona: la Progetto Toscana e la cooperativa Valdarno superiore. Negli uffici, gli agenti sequestrano due raccoglitori pieni di carte e verbali di consigli d’amministrazione. Il materiale è talmente voluminoso da costringere i militari ad annotare: «Vista la copiosità, nell’impossibilità di procedere a una immediata repertazione, la documentazione è stata progressivamente numerata e fatta siglare su ciascun foglio». L’operazione della Guardia di finanza aretina si conclude alle 15,30.

La perquisizione dura otto ore e mezza. Ma sembra non aver lasciato traccia nella memoria del ministro Boschi. Nelle ultime settimane non ha mancato di sottolineare la rettitudine del genitore, finito nel tritacarne mediatico-giudiziario dopo il crac di Banca Etruria, di cui è stato vicepresidente dal giugno 2014 al febbraio 2015. «Mio padre è una persona perbene» ha sillabato il ministro, lasciando intendere candidi trascorsi. L’indagine archiviata sul padre del ministro, pubblicata da Panorama la scorsa settimana, rivela invece un quadro più nebuloso.

Maria Elena Boschi non è però l’unica colta da dimenticanze, in questa storia. Anche il pm Rossi, ascoltato il 28 dicembre dalla prima commissione del Consiglio superiore della magistratura, non ha riferito di essersi occupato dell’ex vicepresidente di Banca Etruria: «Non conosco nessuno della famiglia Boschi» ha dichiarato. «Non sapevo neanche come fosse formata». Una dimenticanza che, lette le anticipazioni dell’inchiesta di Panorama, costringe il magistrato a una tardiva ammissione. Il 20 gennaio 2016 invia una lettera al Csm. E conferma di essersi occupato in passato di procedimenti riguardanti Boschi, ma di non conoscerlo di persona. «Abbiamo preso tutti atto con rammarico che le dichiarazioni rese non corrispondono ai fatti» commenta Pierantonio Zanettin, membro dell’organo che governa la magistratura. Così, la prima commissione del Csm riapre l’istruttoria sul procuratore.

Ma in questo groviglio c’è anche un’altra persona colta da lapsus: è Giuseppe Fanfani, altro componente del Csm dal settembre 2014. Anche lui sapeva. Il 29 marzo 2010, cinque giorni dopo le perquisizioni, Pier Luigi Boschi lo nomina suo difensore di fiducia nell’inchiesta sulla fattoria di Dorna. Eppure, anche lui, sceglie il silenzio.

Boschi, Rossi e Fanfani. Omissioni che mettono a repentaglio il prestigio di tre istituzioni: politica, giustizia e governo della magistratura. Boschi viene indagato per turbativa d’asta nel gennaio 2010. Il suo ruolo nell’acquisto della tenuta è determinante. Prima, nell’ottobre 2007, da presidente del cda della «Valdarno superiore», compra i 303 ettari per 7,5 milioni. Un mese dopo la sua cooperativa indica che l’acquisto sarà fatto dalla «Fattoria di Dorna», un’azienda agricola che però viene creata solo il 29 novembre 2007. Boschi ne è socio al 90 per cento: la quota, sei mesi più tardi, scenderà al 34 per cento. Le altre azioni sono invece in mano a Francesco Saporito, un imprenditore immobiliare calabrese. La Finanza, in un’informativa inviata alla Procura di Arezzo il 21 gennaio 2010, lo segnala come referente, assieme alla famiglia, «di organizzazioni malavitose riconducibili alla ‘ndrangheta».

La società di Boschi e Saporito, dopo aver comprato la tenuta, cede alcuni lotti a privati e istituzioni. Una di queste compravendite convince Rossi a contestare a Boschi padre anche il reato di estorsione. Il padre del ministro, secondo quanto emerge dalle carte lette da Panorama, avrebbe preteso e ottenuto da un successivo acquirente il pagamento di 250 mila euro in nero. Un reato implicitamente ammesso dallo stesso Boschi che, ad aprile del 2014, paga una multa di quasi 40 mila euro all’Agenzia delle entrate. Il resto dell’imposta evasa sarebbe stato imputato a Saporito, che all’epoca della vendita aveva quasi il 64 per cento dell’azienda agricola.

L’imprenditore calabrese, intervistato dal Fatto quotidiano, ha però spiegato di aver fatto ricorso contro la sanzione: «Questi soldi non li ho mai avuti. Io ho firmato e basta. La trattativa l’ha fatta Boschi. E penso che debba pagare lui». Una versione, tra l’altro, già confermata dalla Finanza di Arezzo in un’informativa del 7 maggio 2010: quei denari non sono andati a Saporito. Così, il 4 febbraio 2013, Rossi chiede l’archiviazione dal reato di turbativa d’asta per Boschi e altre otto persone. Lo stesso giorno, il magistrato iscrive però nel registro degli indagati Boschi per estorsione. Due settimane dopo, il 21 febbraio 2013, Maria Elena Boschi viene eletta deputato. E il 18 luglio 2013 Rossi viene chiamato dal governo Letta come consulente per gli affari giuridici.

Tre mesi più tardi, il 24 ottobre 2013, ad Arezzo si tiene il convegno«Cultura della prevenzione per una crescita ecosostenibile». L’evento è organizzato dalla Procura di cui Rossi è già reggente. Quella tavola rotonda è l’ennesima riprova delle amnesie del magistrato. Un mese fa, di fronte alla prima commissione del Csm, aveva assicurato di non aver mai conosciuto nessuno della famiglia Boschi: «Ho conosciuto solo l’attuale ministro in un’occasione pubblica, istituzionale, quando era parlamentare». I giornali scovano allora le foto di un dibattito del 31 ottobre 2015, ad Arezzo. Panorama, invece, ha trovato evidenze più datate. E compromettenti.

Al convegno del 24 ottobre 2013, coordinato da Procura e Prefettura, viene invitata anche l’onorevole Boschi. Della sua presenza deve essersi inevitabilmente accorto anche Rossi. Che, da padrone di casa, apre l’incontro alle 10,30 con una dissertazione sui «reati ambientali». Maria Elena Boschi sale sul palco dell’Auditorium poco dopo, a mezzogiorno in punto, per un intervento dal titolo: «Prevenire è meglio che curare». Finito di parlare, si accomoda in prima fila, a fianco della senatrice Loredana De Petris e dell’allora ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando.

Tailleur blu, sottogiacca grigio abbinato a scarpe tacco 12, capelli raccolti: la futura ministra, ripresa dalle telecamere delle tv locali, sembra quasi spaesata. Tre file più indietro, appollaiato su una poltroncina c’è un distinto signore con i capelli grigi e gli occhiali spessi. Indossa un abito blu, la camicia azzurra e una cravatta vinaccia: è Pier Luigi Boschi, allora sotto inchiesta per estorsione. Davanti a lui, sul palco, seduto al tavolo dei conferenzieri, c’è Rossi, il suo «inquisitore». Che due settimane dopo, il 7 novembre 2013, chiede però l’archiviazione del fascicolo. Il procedimento avrà una coda cinque mesi più tardi, con il pagamento della multa di Boschi all’Agenzia delle entrate per l’Iva evasa sul pagamento in nero.

I destini dei due torneranno a incrociarsi il 21 marzo del 2014 quando, su ordine di Rossi, viene perquisita la sede aretina della direzione generale di Banca Etruria. E Boschi, mai indagato per il crac dell’istituto, siede nel consiglio d’amministrazione dell’istituto. Diventando vicepresidente poco dopo: il 4 aprile 2014. L’ultimo tassello del puzzle è la nomina del suo avvocato al Csm. Giuseppe Fanfani, sindaco di Arezzo e «nipotissimo» del leader della Dc Amintore, viene eletto il 9 settembre 2014 dal Parlamento, su indicazione del Pd di Matteo Renzi. La Nazione, quotidiano di riferimento della Toscana, scrive: «La candidatura, spinta dal ministro Maria Elena Boschi, cui il sindaco è unito da aretinità e fedeltà renziana, potrebbe fare breccia anche col premier in persona». Breccia che diventa un varco.

Poco dopo, 18 dicembre 2014, il governo Renzi affida una nuova consulenza (la precedente era scaduta cinque mesi prima, il 21 luglio 2014) a Rossi, ancora come esperto degli affari giuridici. L’ incarico dura meno di due settimane, ma il 24 febbraio 2015 viene rinnovato fino al 31 dicembre 2015. Queste due nomine avevano spinto la prima commissione del Csm a verificare eventuali incompatibilità tra il ruolo di Rossi, coordinatore delle indagini su Banca Etruria, e quello di consulente dell’esecutivo. L’audizione del magistrato, il 28 dicembre 2015, lascia molte perplessità. Anche la frase così definitiva sulla conoscenza dei Boschi sembra inveritiera: «Non conosco neppure la composizione del nucleo familiare».

La sua versione viene riportata da tutti i giornali italiani. Mentre Fanfani, controparte di Rossi nei procedimenti penali che coinvolgevano Boschi, continua a tacere. Così il Csm, il 19 gennaio 2016, propone l’archiviazione del fascicolo. Il giorno dopo, lette le anticipazioni dell’inchiesta di Panorama, Rossi trasecola. Spedisce una lettera al Csm in cui conferma di aver indagato su Boschi, ma di non conoscerlo personalmente. E l’istruttoria viene riaperta.

Panorama, per la seconda settimana di fila, rivela nuovi documenti e circostanze. Fatti che mettono i protagonisti di questa storia di fronte alle loro responsabilità. Il ministro, il procuratore e il togato: in gioco c’è molto di più della solita disfida politica. 

Rif:https://www.panorama.it/news/politica/tutte-le-bugie-del-caso-boschi/

Tutti i silenzi di Banca Etruria (PM Roberto Rossi al CSM)

Nella relazione finale del Csm sul procuratore Rossi spariscono i riferimenti imbarazzanti ai suoi rapporti con il governo Renzi. E con la famiglia Boschi.

Stia tranquillo: qui, fino al referendum, non si muove una foglia». La malevola insinuazione sulle sorti dell’inchiesta su Banca Etruria si rincorre tra i corridoi della Procura di Arezzo. Lo snodo della maldicenza è Pier Luigi Boschi: ex vicepresidente dell’istituto e padre del ministro delle Riforme Maria Elena, autrice della revisione costituzionale per cui si voterà il 4 dicembre 2016. Boschi senior sarebbe indagato per bancarotta fraudolenta assieme ai componenti dell’ultimo consiglio d’amministrazione: indiscrezione che però non ha mai trovato conferme ufficiali.

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C’era un tempo in cui la giustizia, se intercettava premier e ministri, andava a tutta birra: indagini fulminee, intercettazioni a tappeto, rinvii a giudizio solerti, condanne esemplari. E, come corollario, pubblico ludibrio sulla quasi totalità dei media italiani. La nuova era del potere renziano ha invece inaugurato la stagione delle guarentigie istituzionali: verifiche certosine,  riserbo assoluto, retroscena centellinati, nessuna ingerenza. Una sensazione che ha sfiorato anche l’istruttoria del Consiglio superiore della magistratura proprio sul procuratore di Arezzo, Roberto Rossi, archiviata lo scorso luglio. Un’indagine di cui Panorama è in grado di rivelare documenti inediti: dimostrano come il Csm, nella relazione finale approvata dal plenum, abbbia depurato critiche al pm e riferimenti a possibili cortocircuiti politici. 

L’inchiesta per la bancarotta di Banca Etruria, la cui cessione a Ubi banca perorata dal governo continua a complicarsi, prosegue intanto come un sottomarino al largo dell’oceano. Indagano quattro magistrati: il procuratore Rossi spallegiato da tre sostituti. A nessuno sfugge un fiato. L’apertura del fascicolo fu quasi ovvia, dopo che il Tribunale di Arezzo a marzo 2016 aveva dichiarato lo stato di insolvenza della banca. L’attenzione, per adesso, sembrerebbe concentrata sulle responsabilità dei vecchi manager piuttosto che sull’ultimo cda, guidato da Lorenzo Rosi, di cui faceva parte anche Boschi.

L’unico atto formale dell’inchiesta, infatti, sembrerebbe la perquisizione, il 23 giugno 2016, ai due uomini al vertice dell’istituto fino al 2014: l’ex presidente Giuseppe Fornasari e il suo vice Giorgio Guerrini. A fine ottobre è prevista, invece, la sentenza per l’ostacolo alla vigilanza. Gli imputati sono tre: lo stesso Fornasari, l’ex direttore generale Luca Bronchi e il dirigente Davide Canestri. Un filone aperto alla fine del 2013, dopo che la relazione degli ispettori della Banca d’Italia sull’istituto aretino viene inviata alla Procura. Insomma, un altro atto quasi dovuto.
 
Le verifiche sulla bancarotta sembrano però procedere con i piedi di piombo. A fine settembre i magistrati avrebbero chiesto la proroga delle indagini preliminari. Altri sei mesi di tempo, fino al marzo 2017. Quando, sottolineano i maldicenti, sarà passata la buriana del referendum sulla «Riforma Boschi». I risparmiatori beffati sono però agguerriti. Il 25 settembre 2016 l’Associazione vittima del salvabanche è tornata a manifestare a Laterina, il paese dell’aretino dove vive la famiglia della ministra. Nel comunicato che «invita alla mobilitazione» il comitato, guidato da Letizia Giorgianni, attacca: «Inizieremo a far pressione sulla Procura di Arezzo, che sembra assopita. A differenza delle altre tre Procure che indagano sugli istituti falliti, non ha neppure predisposto il sequestro conservativo dei beni degli ex amministratori coinvolti nella bancarotta fraudolenta. A distanza di nove mesi, i risparmiatori non hanno nessuna garanzia di riottenere i loro soldi».

L’unica cosa certa è che la genesi delle indagini su Banca Etruria è stata piuttosto travagliata. A dicembre del 2015 viene fuori che il procuratore Rossi, il titolare del procedimento, è consulente della presidenza del Consiglio. E del governo fa parte anche la ministra Boschi: il cui padre sedeva nel cda dell’istituto. Su richiesta del consigliere Pierantonio Zanettin, il Csm apre un fascicolo per valutare il trasferimento di Rossi. Un mese dopo, il procedimento è già a un passo dall’archiviazione. Ma il 20 gennaio 2016 viene diffusa l’anticipazione di un’inchiesta di Panorama: Rossi, che al Csm ha dichiarato di non aver mai conosciuto nessuno della famiglia Boschi, dal 2010 aveva già indagato per ben tre volte sull’ex vice presidente di Banca Etruria, chiedendo sempre l’archiviazione. Un rapporto di conoscenza che poi, nel corso delle successive audizioni, il procuratore specificherà non essere mai stato personale, ma «puramente cartaceo».

Il Csm, pungolato da Zanettin, riapre il fascicolo. L’istruttoria riparte. Seguono mesi di innocue audizioni. Fino alla relazione approvata il 13 luglio 2016 dalla prima commissione, titolare delle pratiche disciplinari. Pur sollevando dubbi sull’operato di Rossi, viene chiesta l’archiviazione. Una settimana dopo, il 21 luglio, il plenum del Csm discute il documento. Che però, un emendamento dopo l’altro, viene depurato da ogni critica. Panorama è in grado di rivelare questi «sbianchettamenti». A pagina 16 della relazione, la prima commissione scrive: «Si ravvisa nell’atteggiamento di Rossi  durante le audizioni una qualche esitazione ogni qual volta si toccava il tema dei contatti con esponenti del mondo politico-istituzionale». Frase sparita  nella versione finale. A pagina 20, un altro omissis. Riguarda le tre consulenze per la presidenza del Consiglio: Rossi dice di averle svolte a titolo gratuito, e solo per acquisire titoli utili per «l’avanzamento di carriera». La prima commissione però scrive: «Non sono esaustive alcune spiegazioni sulla previsione di un compenso, sulla mancata presentazione al Csm di dichiarazioni dei carichi di lavoro e sulla possibile inopportunità della prosecuzione di una certa consulenza». Passaggio non lusinghiero. Cassato pure questo.

A pagina 21 si torna sull’incarico governativo del 2015: «Epoca in cui Rossi era l’unico titolare di un’indagine che avrebbe potuto coinvolgere un familiare di un importante esponente del governo». Questa circostanza, continua la delibera, «avrebbe potuto consigliare scelte più articolate sull’assegnazione dei fascicoli o almeno sulla comunicazione al Csm sulla possibile inopportunità del medesimo». Dietro il burocratese c’è una netta presa di distanza. Dagli atti emerge pure che il procuratore ha tenuto per sé tutte le inchieste sull’istituto aretino. Solo dopo le due audizioni davanti al Csm ha creato un pool investigativo. Poco importa. Anche queste critiche vengono rimosse. 
 
La delibera conclude riassumendo i dubbi emersi: la prosecuzione della consulenza nonostante le indagini «potessero riguardare Boschi»; la mancata comunicazione al Csm di «possibili profili di incompatibilità»; la prosecuzione dell’indagine «in veste di unico titolare». Ma anche queste conclusioni spariscono dal testo definitivo. Così come la richiesta di inserire la delibera «nel fascicolo personale del magistrato», una scelta che avrebbe potuto procurargli seri fastidi nel prosieguo della carriera. Resta solo l’indicazione di trasmettere gli atti alla Procura generale di Cassazione «per le eventuali valutazioni di sua competenza».

L’intervento del plenum è talmente invasivo da convincere molti consiglieri all’astensione. Il consigliere Giuseppe Fanfani preferisce invece non partecipare alla votazione. Il motivo è chiaro: Fanfani, che è stato eletto al Csm su indicazione del Pd, è un avvocato di Arezzo. E ha difeso Boschi senior in precedenti traversie giudiziarie, sulle quali indagava Rossi. La delibera del Csm, alla fine, viene comunque approvata con 11 voti favorevoli, nove astenuti e un solo contrario: Zanettin. «È innegabile che Rossi sia esposto al sospetto assai sgradevole di aver favorito, magari solo per ritardata iscrizione, l’illustre indagato Pier Luigi Boschi: parente di un esponente del governo di cui era consulente» dice ai colleghi il 21 luglio 2016, prima della controversa approvazione del documento. «C’erano tutti i presupposti per il trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale».

Rossi, invece, è rimasto saldamente alla guida della Procura di Arezzo. Le indagini proseguono. E i risparmiatori chiedono giustizia. Uno di loro, Carlo Ciulli, s’era già rivolto alla Procura. La sua denuncia viene allegata dal Csm al «caso Rossi». Il 29 giugno 2013 Ciulli presentava un esposto sulla manipolazione del titolo e sulla pessima gestione di Banca Etruria. Le sue azioni avevano perso il 70 per cento del valore in un week-end. Viene aperta un’indagine. Quattro mesi dopo, il 23 ottobre 2013,  arriva però a Ciulli la richiesta di archiviazione: «Per essere rimasti ignoti gli autori del reato». Ci sono colpe, ma non colpevoli. Firmato: Roberto Rossi, procuratore della Repubblica.

Rif: https://www.panorama.it/news/politica/tutti-i-silenzi-di-banca-etruria/

Il Fatto: Etruria, in commissione banche il Pm ROSSI dà tutte le colpe a Bankitalia: “Sue le vere responsabilità, emerge l’inenarrabile”

Il procuratore di Arezzo Rossi in audizione ha detto che Pier Luigi Boschi non partecipò ai cda che hanno deliberato finanziamenti finiti poi in sofferenza configurando “il reato di bancarotta”. E ha definito “strano” che via Nazionale abbia spinto per la fusione con Pop Vicenza. I renziani raccolgono l’assist: “Non solo non ha vigilato ma è colpevole del crac”

La “vera responsabilità” del fallimento di Banca Etruria? Tutta diBanca d’Italia, non solo in termini di vigilanza ma “per un suo ruolo financo eccessivo” nella gestione della crisi dell’istituto. “Sciocchezze”, invece, le discussioni le colpe dell’ex vicepresidente Pierluigi Boschi. Come attestato del resto dal procuratore della Repubblica di Arezzo Roberto Rossi, fino a dicembre 2015 consulente per gli affari giuridici del governo Renzi. Che ha escluso che Boschi senior abbia partecipato alle riunioni durante le quali furono deliberati finanziamenti finiti poi in sofferenzaconfigurando il reato di bancarotta. Nella commissione parlamentare di inchiesta sul sistema bancario va in scena, come da programmi del Pd, la difesa del Giglio magico attraverso l’attribuzione di tutte le colpe del crac aretino al capro espiatorioindividuato in ottobre da Matteo Renzi: Ignazio Visco e la sua via Nazionale. “Quello che sta uscendo ha dell’incredibile, dell’inenarrabile, emerge che Bankitalia non ha vigilato per nulla”, fanno filtrare dal Nazareno.

“Dalla relazione Bankitalia a noi inviata, dopo la terza ispezione su Etruria, si legge che “è stata lasciata inevasa la richiestadell’organo di vigilanza di operazione con partner di elevato standing, e non è stata portata all’attenzione dell’assemblea dei soci l’unica offerta giuridicamente rilevante cioè quella avanzata da banca Popolare di Vicenza”, ha esordito Rossi rievocando i fatti del biennio 2013-2015. “Ci è sembrato un poco strano“, visto che “nella relazione ispettiva, già quella del 2012 su Vicenza, sembra di leggere le relazioni su Etruria. Ci sono l’inadeguatezza degli organi, i crediti deteriorati e anche le azioni baciate che almeno noi (ad Arezzo) non ce l’avevamo”. Insomma: via Nazionale ha cercato di imporre all’Etruria il matrimonio con un altro zoppo, quella Pop Vicenza finita in liquidazione lo scorso giugno, ritenendola evidentemente un “partner di elevato standing”. Bankitalia nel febbraio 2015, ha ricordato, “stigmatizza l’operato dei vertici di Etruria e, come si legge, “il ruolo contraddittorio del presidente Rosi che nelle trattative con Vicenza, a fronte di rassicurazioni che forniva, teneva comportamenti che hanno portato all’interruzione della trattativa””. E “l’impressione è che questo” “sia stato determinante nel commissariamento”.

In effetti a fronte della mancata fusione, da lei stessa propiziata, via Nazionale censurò e sanzionò i vertici fino ad arrivare al commissariamento dell’istituto. Ed è vero anche che Visco, audito dalla Camera nel giugno 2016, disse il falso negando che il gran rifiuto a Gianni Zonin fosse tra le cause della richiesta di commissariamento inviata al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan nonostante il provvedimento citi proprio la mancata presentazione all’Assemblea dei soci dell’”unica offerta giuridicamente rilevante presentata”. Insomma: il Pd si è visto servire su un piatto d’argento l’occasione per festeggiare lo “sgretolamento del castello di sciocchezze” sul fallimento dell’Etruria. “La verità, prima o poi, viene a galla”, ha esultato Andrea Marcucci.

Anche perché Rossi, nelle parti non secretate dell’audizione (la cui diretta video è stata però interrotta tutte le volte che venivano toccati “aspetti riservati”), non ha detto una parola per esempio sugli incontri di Pier Luigi Boschi con Flavio Carboni. Cioè il faccendiere, a processo per la cosiddetta loggia P3, che a Il Fatto Quotidiano ha raccontato come Boschi gli chiese di individuare “persone adeguate” per ruoli di vertice all’interno della banca. Mentre ha tenuto ha sottolineare che “le persone si distinguono non per di chi sono figli o padri, per il loro orientamento sessuale o politico, ma per i comportamenti” e “noi sulla responsabilità per la bancarotta vediamo i comportamenti e questi discendono dalle delibere. I conflitti di interesse li abbiamo tutti evidenziati, per noi i crediti valgono se vanno poi in sofferenza altrimenti non costituiscono il reato bancarotta”.

E Boschi, entrato in cda nel 2011 come amministratore senza deleghe e diventato uno dei due vicepresidenti nel maggio 2014 assieme a Lorenzo Rosi, non risulta aver firmato le delibere incriminate. Ciò non toglie che la stessa Bankitalia l’abbia sanzionato nel 2014 per “violazioni di disposizioni sulla governance, carenze nell’organizzazione, nei controlli interni e nella gestione nel controllo del credito e omesse e inesatte segnalazioni alla vigilanza” e Consob gli abbia inflitto una multa da 120mila euro per violazioni relative ai prospetti informativi delle obbligazioni vendute ai piccoli risparmiatori. Il liquidatore dell’Etruria Giuseppe Santoni chiede poi in sede civile a lui e agli altri ex amministratori il risarcimento di 465 milioni complessivi di danni, ritenendoli responsabili del disastro finanziario dell’istituto. “Le sanzioni sono diverse dalle azioni penali”, è stato il commento di Rossi. Quanto al mancato rinvio a giudizio di Boschi senior, “quello del signor Boschi non è un caso singolo” perché “Bankitalia ha sanzionato tutti i membri dei consigli di amministrazione, ma dei membri degli ultimi due cda non ne sono stati rinviati a giudizio 14”. E lui “non ha mai partecipato a delibere per finanziamenti che fondano il reato di bancarotta”. Boschi, ha quindi ricordato il pm, non era né nel comitato esecutivo né in quello credito.

Infine a Rossi è stato chiesto della telefonata del 3 febbraio 2015 tra lo stesso Boschi e Vincenzo Consoli, durante la quale il padre dell’allora ministro spiegava al dg di Veneto Banca che il giorno dopo avrebbe “parlato col presidente” della possibilità di unire i due istituti. Il procuratore di Arezzo si è limitato a dire che l’intercettazione “non risulta” agli atti della sua inchiesta sulla bancarotta. Forse “si tratta di accertamenti disposti dalla Procura di Vicenza di cui non ci ha reso partecipi”, ha detto.

Resta da vedere, ora, se la commissione di inchiesta sentirà anche l’ex amministratore delegato di Unicredit Federico GhizzoniFerruccio de Bortoli nel suo ultimo libro ha rivelato che nel 2015 l’allora ministra Boschi gli chiese di salvare Banca Etruria. Ghizzoni non confermato né smentito, ma ha anticipato che avrebbe raccontato la sua versione dei fatti davanti all’organo parlamentare.

Rif: https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/11/30/etruria-in-commissione-banche-il-pd-da-tutte-le-colpe-a-bankitalia-sue-le-vere-responsabilita-emerge-linenarrabile/4011581/

Il Fatto: Etruria, M5S: “Inquietanti omissioni del pm Roberto Rossi su Boschi senior”. Lui: “Ho risposto alle domande”

Davanti alla commissione parlamentare di inchiesta il procuratore ha ricordato che il padre della sottosegretaria non è imputato per la bancarotta dell’istituto, fornendo al Pd l’assist per scaricare le colpe su Bankitalia. Ma non ha parlato dell’altro filone, quello sul falso in prospetto e l’accesso abusivo al credito, in cui è indagato. L’ex consulente del governo Renzi rischia di essere deferito al Csm. E per i renziani l’esultanza diventa boomerang.

Etruria, M5S: “Inquietanti omissioni del pm Rossi su Boschi senior”. Lui: “Ho risposto alle domande”

Rif: https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/12/04/banca-etruria-m5s-inquietante-lomissione-del-pm-rossi-su-boschi-senior-brunetta-va-audito-di-nuovo/4018395/

Il Giornale: Super scorta per il pm di Arezzo: “Rischia la pelle”

La questura aumenta il servizio di protezione per il magistrato che indaga su Etruria.

Che stia portando avanti delle indagini sconclusionate è un dato di fatto. Lo dimostra il viottolo che da due anni a questa parte ha fatto al Csm.


È anche per questo che il procuratore capo di Arezzo, Roberto Rossi, a suon di conflitti di interessi e di scandali, non gode di buona reputazione ad Arezzo e la stima nei suoi confronti è in picchiata. Per questo che la questura gli ha affibbiato una super scorta. In meno di un anno è passato dal girare per Arezzo con il solo autista della procura e la sua sgangherata Lancia Lybra color verdolino di almeno 15 anni di vita, ad avere attorno a sé uno stuolo di militari, poliziotti e carabinieri che quasi nemmeno un capo di Stato. Solo per fare un esempio, venerdì scorso Rossi era stato invitato all’hotel Etrusco per un convegno formativo dell’ordine degli avvocati di Arezzo dal titolo «Il processo mediatico», tema che evidentemente lo appassiona in questo periodo della sua vita professionale.

Eccolo qua, il paladino della guerra allo strapotere bancario. A fargli da scorta c’erano almeno sei poliziotti in tenuta antisommossa su un blindato del reparto mobile e in appoggio una pattuglia dei carabinieri con a bordo due militari. «Hanno paura che lo facciano fuori», bisbigliano ad Arezzo. Del resto il titolare dell’inchiesta sul crac di Banca Etruria, non è tra le persone più amate. Mite, calmo, riservato, ma molto ambizioso, è arrivato in città nel lontano 1998, ma nessuno si era accorto di lui fino al caso Etruria/Boschi che gli sta portando più grane che gloria.

Del resto le sue continue amnesie su papà Boschi, le tante contraddizioni e i paventati conflitti di interesse non gli hanno giovato. Nel 2010 aveva già indagato Pier Luigi Boschi per la compravendita sospetta di una fattoria in provincia di Arezzo. Ma non disse nulla al Csm. È stato consulente tecnico per il Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi dei governi Letta e Renzi. Ma non lo disse al Csm. Giurò di non conoscere la famiglia Boschi, ma apparvero foto di lui con Maria Elena, ad un convegno ad Arezzo. In audizione davanti alla commissione banche ha minimizzato sulla posizione di Boschi senior lasciando intendere che le indagini sul suo conto fossero terminate. Ma non era vero. Fino alla presunta garçonnière del magistrato dove portava le sue amiche. Direi che la super scorta ora è sacrosanta.

Etruria, le tante amnesie del pm Roberto Rossi sulla Boschi family

C’è chi vuole risentirlo nella commissione d’inchiesta sulle banche, come il capogruppo di Forza Italia Renato Brunetta. Chi invece vuole chiudere per sempre la pratica su Banca Etruria, come il vice presidente del Partito democratico Mauro Maria Marino, che annuncia che non verrà ascoltato Federico Ghizzoni (ma la decisione per stabilire il calendario delle audizioni, anche quella dell’ex numero uno di Unicredit, è prevista per il 6 dicembre). C’è chi infine sta preparando una relazione da portare al Consiglio superiore della magistratura per un nuovo procedimento di incompatibilità: a questo ci sta pensando il senatore di Idea Andrea Augello perché al momento al Csm non è ancora arrivato nulla. Roberto Rossi, procuratore capo di Arezzo, è di nuovo nell’occhio del ciclone come nel 2015, quando l’istituto di credito dove era vice presidente Pier Luigi Boschi, padre del sottosegretario Maria Elena, fu commissariato dal ministero dell’Economia e dalla Banca d’Italia.

MOLTO ATTIVO IN POLITICA. Rossi è un magistrato molto impegnato politicamente. Fu membro della giunta dell’Associazione nazionale magistrati (Anm) tra il 2007 e il 2008, durante la presidenza di Simone Luerti, storico leader di Unicost, travolto dall’inchiesta Why Not di Luigi De Magistris: Luerti si dimise dopo pochi mesi per lasciare il posto a Luca Palamara. In sostanza Rossi non è un magistrato qualunque: lo definiscono ambizioso, forse un po’ timido, ma comunque attento a quello che dice.

GIÀ ACCUSATO DI RETICENZA. Eppure proprio come allora, era la fine del 2015, il magistrato aretino si ritrovò a difendersi, questa volta a Palazzo dei Marescialli, dalle accuse di reticenza o di presunte amnesie sempre su papà Boschi. Le insinuazioni erano le stesse: sta proteggendo il padre dell’ex ministro per le Riforme? Ne nacque un dibattito acceso che durò fino all’estate del 2016 con una semi archiviazione da parte della prima commissione del Csm (quella che si occupa delle presunte incompatibilità ambientali) e con il rinvio degli atti alla procura generale della Cassazione dove il fascicolo si è probabilmente perso sulla scrivania del procuratore generale Pasquale Ciccolo, in scadenza di mandato a fine anno: non si hanno più notizie di quella pratica.
Di sicuro nel 2015 il problema era più evidente. Rossi infatti dal 2013 (governo di Enrico Letta) era stato assunto come consulente di Palazzo Chigi «nell’ambito del dipartimento per gli Affari giuridici e legislativi». Poi rinnovò altri due anni con il governo Renzi, nel pieno delle inchieste su Banca Etruria, quando la procura indagava proprio su Boschi. Ne venne fuori una polemica infuocata sempre legata al Giglio magico renziano.

CONSULENZA RETRIBUITA O NO? Del resto Rossi si ritrovò a collaborare con l’ufficio giuridico diretto da Antonella Manzione, vicinissima anche all’attuale ministro per lo Sport Luca Lotti, ma soprattutto ex capo dei vigili di Firenze, quando era sindaco Renzi. Allo stesso tempo proprio in prima commissione rispose spesso in un modo – soprattutto secondo il consigliere laico Pierantonio Zanetti – “ambiguo”, per poi precisare di nuovo nelle settimane successive, come del resto è accaduto questa volta nella commissione d’inchiesta sulle banche. Anche allora sfuggirono dei dettagli, per esempio sul fatto che il contratto di consulenza fosse retribuito o meno, oppure di aver conosciuto in passato la famiglia Boschi.

CONTRADDIZIONI SUL “COMITATO OMBRA”. In ogni caso non è la prima volta che Rossi si ritrova a dover fare precisazioni. Il 28 dicembre 2015 fu proprio Zanettin a domandare in prima commissione al Csm se Boschi senior faceva parte del cosiddetto “comitato ombra” dell’istituto di credito. Il procuratore rispose di no. Peccato che la volta successiva, di fronte a una relazione di Bankitalia che diceva il contrario, «ha dovuto precisare che in realtà era componente di una commissione consigliare informale», ha ribadito proprio Zanettin in un’intervista a il Giornale.

DISSE DI NON CONOSCERE I BOSCHI. Non solo. Sempre quel 28 dicembre Rossi disse di fronte al Csm di non conoscere nessuno della famiglia Boschi, ma riconvocato per la terza volta ammise di aver indagato in passato sul padre dell’ex ministro delle Riforme. Stranezze, verrebbe da dire. Anche se poi si disse che nessuno gli aveva domandato esplicitamente se aveva indagato su di lui.

In ogni caso durante quella audizione al Csm Rossi si dimenticò di ben 10 procedimenti giudiziari a carico di papà Boschi, dal 2010 al 2015, tutti nella procura di Arezzo. Erano indagini di natura fiscale, più una di estorsione per la vicenda dlla Fattoria di Dorna. Di questi 10 quattro erano materialmente nelle mani di Rossi, sin dal 2010, quando il procuratore capo era Carlo Maria Scipio. Furono tutti archiviati. Non solo. In quei mesi concitati venne pure fuori un convegno sulla legalità il 31 ottobre del 2015, proprio ad Arezzo, dove erano presenti il ministro Boschi e lo stesso procuratore Rossi. A precisa domanda spiegò che non si trattava di un incontro istituzionale e non pensava di compromettersi.

PRATICA SPARTITA AL CSM. In quest’ultimo anno, poi, c’è stata l’ennesima stranezza al Csm. Durante la presidenza di Giuseppe Fanfani, già esponente del Pd e avvocato di Banca Etruria, in prima commissione una pratica carico del procuratore di Arezzo è praticamente scomparsa. Si tratta di quella relativa a un presunto appartamento o garçonnière, che avrebbe avuto a disposizione il magistrato, coinvolto come parte offesa in un processo a carico di Antonio Incitti, poliziotto un tempo in servizio presso la squadra di polizia giudiziaria della procura di Arezzo, accusato di induzione alla corruzione. Proprio il 5 dicembre Rossi era in procura di Genova per essere ascoltato dai magistrati. Si spera, questa volta, non ci sia bisogno di precisazioni nei prossimi giorni.
Rif: https://www.lettera43.it/rossi-boschi-banca-etruria/

Il Giornale: Il pm della garçonnière adesso rischia grosso: trasferimento o sanzioni

L’incompatibilità pende sulla toga di Etruria Tra le ipotesi del Csm la misura disciplinare.

Dall’altra un processo vero e proprio di natura disciplinare, sempre nell’austera cornice di Palazzo dei Marescialli.

Solo ipotesi, al momento, certezze non ce ne sono, si lavora ancora sottotraccia sul caso Rossi. Il procuratore della repubblica di Arezzo, come documentato dal Giornale, è al centro di una vicenda spinosa: fra il 2010 e il 2011 ebbe la disponibilità di un appartamento nei dintorni di Arezzo che frequentava con le sue amiche. Non solo. Roberto Rossi, 57 anni, il magistrato più in vista della città toscana, oggi titolare della delicatissima inchiesta su Etruria, non avrebbe mai pagato un euro: né affitto, né spese condominiali e bollette. Niente di niente, finché, anche su pressione dei condomini stufi di quell’andirivieni di ragazze, quei locali furono sfilati al magistrato e messi sul mercato da Italcasa Costruzioni, la società proprietaria dell’immobile.

Una situazione che invece non dovrebbe avere conseguenze sul piano penale: l’indagine infinita della procura di Genova, al lavoro da oltre quattro anni, si avvia lentamente verso l’epilogo. Ma Genova si è concentrata su un altro episodio e su un’altra persona: la concussione da 50mila euro che l’ex poliziotto Antonio Incitti, per un certo periodo braccio destro di Rossi, avrebbe compiuto ai danni di un imprenditore, Stefano Fabbriciani.

Per Genova la storia dell’appartamento è vera ma marginale, anzi irrilevante col metro del codice. Per spremere denaro Incitti avrebbe invece millantato fantomatiche coperture e inesistenti scambi di favore con i vertici della procura, distorcendo la realtà e sporcando il nome del capo dell’ufficio. La procura di Genova, a dispetto del tempo passato, non ha ancora ascoltato alcuni dei protagonisti di quella storia, ma il quadro non cambia: per Rossi si intravede all’orizzonte l’archiviazione e la storia della garçonnière resta sullo sfondo.

Al Csm però la vicenda non è affatto chiusa. E ci si sta muovendo in due direzioni, parallele almeno in questa fase. La prima commissione, letti gli articoli del Giornale, potrebbe aprire una pratica per valutare l’ipotesi del trasferimento: Rossi non potrebbe più rimanere in una città troppo piccola per i troppi spifferi. In contemporanea si cerca di capire se negli interminabili rimpalli di una storia che si trascina da troppo tempo fra Arezzo, Genova e Roma, sia stata creata una cartellina e iniziato un procedimento disciplinare sull’abitazione di Poggio Fabbrelli. Sfumature tecniche. Distinzioni forse noiose per chi non conosce l’ambiente ovattato di Palazzo dei Marescialli. Ma queste considerazioni sono un termometro che misura l’interesse dell’organo di autogoverno della magistratura per le rivelazioni del Giornale. E il desiderio, pur con tutta la prudenza necessaria, di chiarire una volta per tutte quel che molti in città raccontavano con un filo di voce.

Rossi intanto annuncia querela e sottolinea il tentativo di screditarlo, a suo giudizio, nel momento sensibilissimo in cui si è appena chiusa l’indagine su Etruria.

Il Giornale: Tra i guai del pm di Arezzo spunta pure una garçonnière

Rossi usava un appartamento finito in un’inchiesta. I vicini: “Quell’andirivieni di ragazze era fastidioso”.

Una storia andata avanti a lungo, un anno e mezzo circa fra il 2010 e il 2011, tanto che alcuni condomini si erano lamentati con gli amministratori della società proprietaria della casa. «Quell’andirivieni di ragazze non ci andava a genio», racconta al Giornale Emiliano, uno dei sedici abitanti del complesso residenziale di Poggio Fabbrelli, alle porte di Arezzo. «Noi volevamo tranquillità e invece Rossi arrivava per primo, poi le sue amiche, una in particolare a bordo di una Mercedes». Elisabetta, che abita al piano terra, elabora immagini più defilate: «Ho capito che era il procuratore di Arezzo perché avevo visto le sue foto sui giornali. Ma ho in mente solo incontri fugaci sul camminamento di cotto affacciato sulla valle: Buongiorno e buonasera, nient’altro». Anzi, discrezione e silenzio.

La garçonièrre del magistrato era un argomento di dominio pubblico o quasi. E a suo tempo è finita dentro un fascicolo molto più corposo che da Arezzo è partito per Genova, competente ad indagare sui reati commessi o subiti dalle toghe toscane. L’interminabile, lunghissima inchiesta del pm genovese Francesco Pinto, una delle colonne portanti di Magistratura democratica in Liguria, viaggia verso l’archiviazione per Rossi il cui nome sarebbe stato speso a sua insaputa da un poliziotto infedele, Antonio Incitti, all’epoca braccio destro del procuratore, per spremere 50mila euro a un imprenditore.

Ma la vicenda di Poggio Fabbrelli resta un episodio sconcertante, da valutare attentamente sul piano disciplinare anche perché nel periodo in questione Rossi, che aveva le chiavi di quell’abitazione, non avrebbe mai pagato le spese condominiali, il canone d’affitto e neppure le bollette delle utenze. Un conto di alcune migliaia di euro. Una cifra saldata dagli amministratori della Italcasa Costruzioni srl, Paolo Casalini e Marta Massai, in quei mesi casualmente fidanzata di Antonio Incitti. Prima, naturalmente, di rompere fragorosamente quell’unione e di correre a denunciare quel torbido groviglio di rapporti, favori, scelte orientate, scoperti dal Giornale.

Rossi nei mesi scorsi è stato al centro di una lunga querelle davanti al Csm perché non avrebbe segnalato il potenziale conflitto di interessi fra la sua consulenza ai Governi Letta e Renzi e l’indagine su Etruria, ai cui vertici c’era il padre del ministro Maria Elena Boschi.

Non si sa invece se il Csm abbia mai affrontato quest’altro capitolo assai più imbarazzante: un magistrato deve maneggiare con estrema cautela tutti i rapporti e deve tutelare in ogni modo la propria onorabilità, evitando anche solo l’ombra di possibili ricatti e voci velenose. Quel che accadeva invece alle porte di Arezzo era noto a un grappolo di persone e nella primavera del 2012, quando la coppia Incitti-Massai andò in pezzi, entrò nei verbali raccolti dagli agenti della polizia aretina. Non è chiaro se la procura generale di Firenze abbia esercitato l’azione disciplinare, peraltro facoltativa e non obbligatoria, e se la relativa pratica sia mai giunta a Roma, a Palazzo dei Marescialli, e sia stata messa in stand by o archiviata.

Certo nel 2012 Casalini e Massai raccontano che Incitti ha chiesto loro un appartamento per il «capo» e aggiungono di essere stati loro a pagare tutto quello che c’era da pagare. Finché i mugugni di qualche condomino e l’opportunità di affittare finalmente quei novanta metri quadri non li hanno convinti, alla fine del 2011, a chiudere il rapporto con quel personaggio ingombrante. Che intanto ha fatto carriera, nel 2014 è diventato formalmente il procuratore della Repubblica, ha condotto la delicatissima indagine sul disastro della banca che ha portato via i risparmi di migliaia di italiani.

Rif: http://www.ilgiornale.it/news/politica/i-guai-pm-arezzo-spunta-pure-gar-onni-re-1334481.html