Sentenze pilotate, due giudici del Consiglio di Stato vogliono patteggiare. Dall’indagine è nato l’esposto del pm Fava contro Ielo che ha dato il via alla guerra tra le toghe romane

Vincere un ricorso davanti al Consiglio di Stato non era affatto difficile. Bastava sapere a chi rivolgersi, sganciare una mazzetta e attendere la sentenza tanto desiderata. Uno scandalo per il quale ieri hanno chiesto di patteggiare l’ex presidente del Consiglio di Giustizia amministrativa (Cga) della Sicilia Raffaele Maria De Lipsis, l’ex magistrato della Corte dei Conti Luigi Pietro Maria Caruso e, in ultimo, il deputato dell’assemblea regionale siciliana Giuseppe Gennuso.

I tre sono accusati dalla Procura di Roma di aver messo in piedi una cricca specializzata nella compravendita di verdetti amministrativi capace, tra il 2014 e il 2015, di incassare ben 150mila euro. Una richiesta di patteggiamento su cui, il 26 giugno, dovrà esprimersi il gup di Roma, Costantino De Robbio. La quarta persona coinvolta in questa inchiesta, il giudice in pensione del Consiglio di Stato Nicola Russo, ha scelto di essere giudicato con il rito ordinario che inizierà il prossimo 15 luglio.

Questa vicenda, di per sé molto importante, si intreccia con i recenti problemi interni al Csm. Si tratta del procedimento su cui lavoravano il procuratore aggiunto Paolo Ielo (nella foto) e il pm Stefano Fava, quest’ultimo poi spogliato dell’inchiesta, e in cui figuravano gli avvocati Pietro Amara e Giuseppe Calafiore. Un’indagine che convinse Fava a scrivere il famoso esposto contro Ielo e Giuseppe Pignatone da cui, di fatto, ha preso il via la cosiddetta guerra delle toghe.

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La banda dei giudici corrotti: l’inchiesta che sta sconvolgendo la magistratura

Sentenze vendute, elezioni annullate, depistaggi. C’è una vera e propria rete di toghe sporche al lavoro da Milano alla Sicilia.

La banda dei giudici corrotti: l'inchiesta che sta sconvolgendo la magistratura

Giustizia corrotta, ai massimi livelli. Con una rete occulta che corrode il potere giudiziario dall’interno, arrivando a minare i pilastri della nostra democrazia. Un’inchiesta delicatissima, coordinata dalle Procure di Roma, Messina e Milano, continua a provocare arresti, da più di un anno, tra magistrati di alto rango. Non si tratta di casi isolati, con la singola toga sporca che svende una sentenza. L’accusa, riconfermata nelle diverse retate di questi mesi, è molto più grave: si indaga su un sistema di contropotere giudiziario, con tutti i crismi dell’associazione per delinquere, che si è organizzato da anni per avvicinare, condizionare e tentare di corrompere un numero indeterminato di magistrati. Qualsiasi giudice, di qualunque grado.

Al centro dello scandalo ci sono i massimi organi della giustizia amministrativa: il Consiglio di Stato e la sua struttura gemella siciliana. Sono giudici di secondo e ultimo grado: decidono tutte le cause dei privati contro la pubblica amministrazione con verdetti definitivi (la Cassazione può intervenire solo in casi straordinari). Molti però non sono magistrati: vengono scelti dal potere politico. Eppure arbitrano cause di enorme valore, come i mega-appalti pubblici. Interferiscono sempre più spesso nelle nomine dei vertici di tutta la magistratura, che la Costituzione affida invece al Csm. Possono perfino annullare le elezioni. L’indagine della procura di Roma ha già provocato decine di arresti, svelando storie allucinanti di giudici amministrativi con i soldi all’estero, buste gonfie di contanti, magistrati anche penali asserviti stabilmente ai corruttori, giri di prostituzione minorile e sentenze svendute in serie, «a pacchetti di dieci». Con tangenti pagate anche per annullare il voto popolare. Un attacco alla democrazia attraverso la corruzione.

L’antefatto è del 2012: un candidato del centrodestra in Sicilia, Giuseppe Gennuso, perde le elezioni per 90 preferenze e contesta il risultato, avvelenato da una misteriosa vicenda di schede sparite. In primo grado il Tar boccia tutti i ricorsi. Quindi il politico siciliano, secondo l’accusa, versa almeno 30 mila euro a un mediatore, un ex giudice, che li consegna al presidente del Consiglio di giustizia amministrativa della Sicilia, Raffaele Maria De Lipsis. Che nel gennaio 2014 annulla l’elezione e ordina di ripetere il voto in nove sezioni dei comuni di Pachino e Rosolini: quelle dove è più forte Gennuso. Che nell’ottobre 2014 conquista così il suo seggio, anche se ha precedenti per lesioni, furto con destrezza ed è indiziato di beneficiare di voti comprati. Il politico respinge ogni accusa. Che oggi risulta però confermata dalle confessioni di due potenti avvocati siciliani, Piero Amara e Giuseppe Calafiore, arrestati nel febbraio 2018 come grandi corruttori di magistrati.

L’esistenza di una rete strutturata per comprare giudici era emersa già con le prime perquisizioni. Nel luglio 2016, in casa di un funzionario della presidenza del consiglio, Renato Mazzocchi, vengono sequestrati 250 mila euro in contanti e una copia appuntata di una sentenza della Cassazione favorevole a Berlusconi sul caso Mediolanum. Altre indagini portano a scoprire, come riassume il giudice che ordina gli arresti, «un elenco di processi, pendenti davanti a diverse autorità giudiziarie», con nomi di magistrati affiancati da cifre. Uno di questi è Nicola Russo, presidente di sezione del Consiglio di Stato, nonché giudice tributario. Quando viene arrestato, nella sua abitazione spuntano atti di processi amministrativi altrui, chiusi in una busta con il nome proprio di Mazzocchi. Negli stessi mesi Russo viene sospeso dalla magistratura dopo una condanna in primo grado per prostituzione minorile. Oggi è al secondo arresto con l’accusa di essersi fatto corrompere non solo dagli avvocati Amara e Calafiore, ma anche da imprenditori come Stefano Ricucci e Liberato Lo Conte. Negli interrogatori Russo conferma di aver interferito in diversi processi di altri giudici, su richiesta non solo di Mazzocchi, ma anche di «magistrati di Roma» e «ufficiali della Finanza». Ma si rifiuta di fare i nomi. Per i giudici che lo arrestano, la sua è una manovra ricattatoria: l’ex giudice cerca di «controllare questa rete riservata» di magistrati e ufficiali «in debito con lui per i favori ricevuti».

Anche De Lipsis, per anni il più potente giudice amministrativo siciliano, ora è agli arresti per due accuse di corruzione. Ma è sospettato di aver svenduto altre sentenze. La Guardia di Finanza ha scoperto che la famiglia del giudice ha accumulato, in dieci anni, sette milioni di euro: più del triplo dei redditi ufficiali. Scoppiato lo scandalo, si è dimesso. Ma anche lui ha continuato a fare pressioni su altri giudici, che ora confermano le sue «raccomandazioni» a favore di aziende private come Liberty Lines (traghetti) e due società immobiliari di famiglia dell’avvocato Calafiore, che progettavano speculazioni edilizie nel centro storico di Siracusa (71 villette e un ipermercato) bocciate dalla Soprintendenza.

L’inchiesta riguarda molti verdetti d’oro. Russo è accusato anche di aver alterato le maxi-gare nazionali della Consip riassegnando un appalto da 338 milioni alla società Exitone di Ezio Bigotti e altri ricchi contratti pubblici all’impresa Ciclat. Per le stesse sentenze è sotto inchiesta un altro ex presidente di sezione del Consiglio di Stato, Riccardo Virgilio: secondo l’accusa, aveva 751 mila euro su un conto svizzero. Per ripulirli, il giudice li ha girati a una società di Malta degli avvocati Amara e Calafiore.

Tra gli oltre trenta indagati, ma per accuse ancora da verificare, spicca un altro presidente di sezione, Sergio Santoro, ora candidato a diventare il numero due del Consiglio di Stato.

A fare da tramite tra imprenditori, avvocati e toghe sporche, secondo l’accusa, è anche un altro ex magistrato amministrativo, Luigi Caruso. Fino al 2012 era un big della Corte dei conti, poi è rimasto nel ramo: secondo l’ordinanza d’arresto, consegnava pacchi di soldi alle toghe sporche ancora attive. Lavoro ben retribuito: tra il 2011 e il 2017 l’ex giudice ha versato in banca 239 mila euro in contanti e altri 258 mila in assegni.

Amara, come avvocato siciliano dell’Eni, è anche l’artefice della corruzione di un pm di Siracusa, Giancarlo Longo, che in cambio di almeno 88 mila euro e vacanze di lusso a Dubai aprì una fanta-inchiesta giudiziaria ipotizzando un inesistente complotto contro l’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi. Un depistaggio organizzato per fermare le indagini della procura di Milano sulle maxi-corruzioni dell’Eni in Nigeria e Congo. Dopo l’arresto, Longo ha patteggiato una condanna a cinque anni. Ma la sua falsa inchiesta ha raggiunto il risultato di spingere alle dimissioni gli unici consiglieri dell’Eni, Luigi Zingales e Karina Litwak, che denunciavano le corruzioni italiane in Africa.

Nella trama entra anche il potere politico, proprio per i legami strettissimi tra Consiglio di Stato e governi in carica. Giuseppe Mineo è un docente universitario nominato giudice del Consiglio siciliano dalla giunta dell’ex governatore Lombardo. Nel 2016 vuole ascendere al Consiglio di Stato. A trovargli appoggio politico sono gli avvocati Amara e Calafiore, che versano 300 mila euro al senatore Denis Verdini, che invece nega tutto. L’ex ministro Luca Lotti però conferma che proprio Verdini gli chiese di inserire Mineo tra le nomine decise dal governo Renzi. Alla fine il giudice raccomandato perde la poltrona solo perché risulta sotto processo disciplinare per troppi ritardi nelle sue sentenze siciliane.

Tra i legali ora indagati c’è un altro illustre avvocato, Stefano Vinti, accusato di aver favorito un suo cliente, l’imprenditore Alfredo Romeo, con una tangente mascherata da incarico legale: un “arbitrato libero” (un costoso verdetto privato) affidato guarda caso al padre del solito Russo. Proprio lui, l’ex giudice che sta cercando di usare lo squadrone delle toghe sporche, ancora ignote, per fermare i magistrati anti-corruzione.