Un ex pm di Salerno, avvocati e imprenditori arrestati: si ipotizza la corruzione

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AGI – Il suo nome era legato alla condanna nel 2014 del presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, per abuso d’ufficio. La sentenza di primo grado era stata poi superata dall’assoluzione in appello, pronuncia di secondo grado confermata in Cassazione. Ma Roberto Penna, 60 anni a settembre prossimo, da pm a Salerno si era conquistato ormai una fama di magistrato non prono ai poteri forti.

Destò qundi sorpresa una perquisizione del 14 luglio di un anno fa che lo coinvolse, così come coinvolse imprenditori legati a un consorzio con sede nel palazzo della prefettura salernitana, uno dei quali ex generale della Guardia di Finanza.

Oggi, l’inchiesta aperta a Napoli a gennaio 2021 dai pm Antonello Ardituro e Antonella Fratello, coordinata dall’aggiunto Giuseppe Lucantonio con il procuratore capo Giovanni Melillo, e affidata al Ros ha portato a 5 misure cautelari nei confronti di Penna, di Maria Gabriella Gallevi, avvocato del Foro di Salerno e sua compagna, e di Francesco Vorro, Umberto Inverso e Fabrizio Lisi (ex comandante della Scuola ispettori e sovrintendenti della Guardia di Finanza a L’Aquila), imprenditori soci di un consorzio.

Il plenum del Csm, in due sedute datate 6 e 7 dicembre scorso, nel frattempo, subito dopo le perquisizioni in diversi uffici e abitazioni alla ricerca di documentazione, aveva disposto il trasferimento in prevenzione del pm salernitano a Roma come magistrato di sorveglianza.

Penna, è l’ipotesi investigativa, in cambio di incarichi per Maria Gabriella Gallevi, avrebbe fornito agli imprenditori informazioni su procedimenti giudiziari che li riguardavano, anche fascicoli sul suo tavolo.

I tre soci, inoltre, contavano su di lui, per evitare provvedimenti prefettizi, avere in rapporti con un funzionario prefettizio ed entrare nella white list del Palazzo di Governo salernitano. Da qui, ipotesi di reato a vario titolo nei confronti dei cinque indagati per corruzione per l’esercizio delle funzioni, corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio, corruzione in atti giudiziari e induzione indebita a dare o promettere utilità. Penna, attraverso il suo legale, si è sempre mostrato disposto a collaborare con gli inquirenti. A tutti gli indagati, il gip napoletano ha riconosciuto il beneficio dei domiciliari.

Rif: https://www.agi.it/cronaca/news/2022-02-09/corruzioni-arresti-ex-pm-salerno-avvocati-imprenditori-15552730/

Napoli, arrestato per corruzione il pm Roberto Penna

NAPOLI – Arrestato per corruzione il magistrato Roberto Penna. Il pm è da stamattina agli arresti domiciliari sulla base di un’ordinanza emessa dal gip del Tribunale di Napoli. L’accusa di corruzione risale a quando Roberto Penna era sostituto procuratore presso il Tribunale di Salerno.

ARRESTATA ANCHE LA COMPAGNA E TRE IMPRENDITORI

Arresti domiciliari anche per l’avvocato di Salerno Maria Gabriella Gallevi, compagna del magistrato, e per gli imprenditori Francesco Vorro, Umberto Inverso e Fabrizio Lisi (un ex generale della Finanza). Le accuse nei confronti degli arrestati sono “corruzione per l’esercizio delle funzioni, corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio, corruzione in atti giudiziari e induzione indebita a dare o promettere utilità oggetto delle investigazioni condotte” e delegate al Raggruppamento operativo speciale dell’Arma dei Carabinieri. A quanto si apprende, Penna avrebbe rivelato agli imprenditori notizie relative alle indagini che stava portando avanti su presunti abusi edilizi e avrebbe ‘favorito’ gli imprenditori in cambio di incarichi ricevuti dalla sua compagna. 

Il magistrato Penna è abbastanza noto anche per aver sostenuto l’accusa nel processo con rito immediato contro l’ex procuratore generale della Corte di appello di Catanzaro, Otello Lupacchini (trasferito a Torino dopo il provvedimento disciplinare del Csm), che accusato di aver mentito per ottenere il potenziamento della scorta

Roberto Penna, chi è il magistrato di Salerno arrestato per corruzione

Ex sostituito procuratore a Salerno, da pm ha condotto molte inchieste scomode, sostenendo accuse anche contro l’arcivescovo Pierro e Vincenzo De Luca

La “chiacchiera” ha sempre accompagnato, o in qualche caso addirittura preceduto, il magistrato Roberto Penna, da stamane ai domiciliari nell’ambito di un’inchiesta per corruzione. E lui non ha mai fatto niente per depotenziarla. Anzi, gli è sempre piaciuto stare al centro dell’attenzione e non si è mai adoperato per allontanare da sé i riflettori. L’aggettivo che più di altri ha connotato la sua opera da magistrato è stato “scomodo”, perché Roberto Penna da sostituto procuratore (attualmente era in servizio come giudice al Tribunale di Sorveglianza di Roma) si è addossato il carico di inchieste difficili, a volte persino impossibili, che toccavano i poteri forti della città di Salerno. Ma lui di questo andava fiero e si era costruito nel tempo l’immagine del pm senza macchia e senza paura che portava con sé, insieme a quella “chiacchiera” ingombrante, nei circoli e club blasonati di Salerno che frequentava con una certa assiduità.

Parte offesa

Nel 2014 Penna fu parte offesa in un procedimento a carico di Marta Santoro, l’ex comandante della Forestale di Foce Sele condannata in via definitiva a sei anni e sei mesi per concussione, corruzione, abuso ed atti contrari ai doveri d’ufficio. L’ex sovrintendente aveva millantato un’amicizia con lui, che gli avrebbe consentito di sistemare noie giudiziarie relative ad illeciti edilizi evitando controlli. 

Le inchieste contro De Luca

Ogni inchiesta sugli abusi edilizi in Costiera amalfitana portava in calce la sua firma ma il suo pezzo da novanta, che gli procurò fama oltre i confini salernitani, fu l’accusa contro l’arcivescovo Pierro per aver fatto con i fondi regionali di una colonia per ragazzi un albergo di lusso, l’Angellara Home. Il presule dovette sostenere un processo e venne condannato. E poi le inchieste contro De Luca e il suo sistema di potere, la più nota quella sul termovalorizzatore mai realizzato, per la nomina a project manager del dirigente comunale Alberto Di Lorenzo. Finì tutto in una bolla di sapone ma tanto bastò per alienarsi per sempre le simpatie del governatore. Non è un caso che tra le intercettazioni telefoniche a suo carico ce n’è una in cui imputa all’allora procuratore capo a Salerno, Corrado Lembo, un presunto immobilismo nel far svolgere indagini sul conto di De Lucaquando era sindaco di Salerno. Spericolato oltre che coraggioso.

Rif: https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/cronaca/22_febbraio_09/roberto-penna-chi-magistrato-salerno-arrestato-corruzione-9f9b7ad8-897c-11ec-ae73-595424bfd521.shtml

Corruzione, arrestati l’ex sostituto procuratore
di Salerno, avvocato e imprenditori ed ex GdF

Figurano anche Roberto Penna, all’epoca dei fatti contestati sostituto procuratore a Salerno, e la sua compagna, l’avvocato di Salerno Maria Gabriella Gallevi, tra le cinque persone arrestate oggi dal Ros di Napoli nell’ambito di indagini coordinate dal procuratore di Napoli Giovanni Melillo. 

Si tratta di arresti ai domiciliari notificati anche agli imprenditori Francesco Vorro, Umberto Inverso e Fabrizio Lisi, Fabrizio Lisi, quest’ultimo generale della Guardia di Finanza in quiescenza ed ex comandante della Scuola ispettori e sovrintendenti della Guardia di finanza di L’Aquila. Contestati, a vario titolo, la corruzione per l’esercizio delle funzioni, per atto contrario ai doveri d’ufficio e in atti giudiziari, oltre che induzione indebita a dare o promettere utilità. 

Rif. https://www.ilmattino.it/salerno/corruzione_salerno_arrestati_ex_sostituto_procuratore_roberto_penna_avvocato_imprenditori-6492902.html

Le accuse al giudice arrestato a Brindisi: “Si è fatto dare 150mila euro dalla famiglia di un bimbo disabile, speculava su tragedie umane”

Le accuse al giudice arrestato a Brindisi: “Si è fatto dare 150mila euro dalla famiglia di un bimbo disabile, speculava su tragedie umane”

Nell’ordinanza di custodia cautelare che ha portato in carcere il giudice Gianmarco Galiano, in servizio a Brindisi, ricostruita la vicenda della visita a casa di una famiglia con un figlio disabile per colpa medica, risarcita con 2 milioni di euro. Il padre e la madre: “Disse in modo arrogante e sprezzante che anche in considerazione del fatto che abitavamo in una piccola casa in campagna e che lui, conoscendo chiunque contasse, ci avrebbe fatto togliere il bambino”

“Vi dico la verità, ora che vi ho detto queste cose ho paura. Ho ancora paura che questo Galiano possa farci qualcosa di brutto”. Ha ricostruito tra le lacrime un episodio che risale al 2015, una brutta storia che è diventata una delle vicende centrali dell’inchiesta su favori e corruzione che ha portato all’arresto del giudice civile Gianmarco Galiano, ora rinchiuso nel carcere di Melfi, e di altre cinque persone. È il padre di un bambino disabile che, stando a quanto ha riferito alla Guardia di Finanza, avrebbe ricevuto a casa la visita del magistrato e della moglie, consapevoli del risarcimento ottenuto per via delle conseguenze subite dal neonato in ospedale. I due, ha raccontato agli investigatori, gli avrebbero chiesto di versare 150mila euro. Concussione secondo i pm di Potenza, guidati dal procuratore capo Francesco Curcio, estorsione a parere del giudice per le indagini preliminari Lucio Setola che ha emesso l’ordinanza di custodia cautelare.

“È stata una testimonianza toccante, anche molto difficile per chi l’ha resa a Brindisi, convocato dalla Guardia di finanza”, ha raccontato il procuratore di Potenza. Ed è solo un frammento nella complessità di contestazioni rivolte a Galiano e alla sua presunta “cricca”, composta secondo l’accusa dal commercialista Oreste Pepe Milizia, ritenuto il suo braccio destro, dalle rispettive ex mogli, l’avvocato Federica Spina e il presidente dell’ordine degli ingegneri di Brindisi, Annalisa Formosi, dall’imprenditore Massimo Bianco e dall’altro avvocato Francesco Bianco.

Si parla di cause pilotate, di consulenze per 400mila euro, di Rolex, macchine costose – finite sotto sequestro – e di sponsorizzazioni fittizie ad associazioni sportive fatte da privati in favore della barca a vela di Galiano, in cambio di tutela giudiziaria, specie nelle aste fallimentari. Ma si parla anche di quote parte dei risarcimenti per incidenti e tragedie umane, finiti nella disponibilità del magistrato attraverso i conti correnti della ex suocera. Un affresco che racchiude la “spregiudicata disinvoltura” con cui Galiano “era solito speculare sulle tragedie umane e sfruttare indebitamente, per fini di arricchimento personale, la sua carica di giudice”.

Uno degli episodi cardine ricostruito nell’ordinanza è il risarcimento ottenuto dalla famiglia del bambino disabile. “A seguito della gravissima negligenza dei medici che hanno determinato l’irreparabile patologia a carico di mio figlio – ha raccontato la madre del piccolo agli investigatori – iniziammo una causa civile per un risarcimento. Per la verità volevo giustizia in sede penale ma mi dissero che le cause spesso finiscono nel nulla. Mio figlio non comunica con il mondo esterno, io sono l’unico punto di riferimento”. Dopo un lungo giro e per varie ragioni i due genitori si rivolsero all’avvocato Spina, poi dovettero cambiare per ragioni di incompatibilitàdella stessa con il marito, per l’appunto giudice a Brindisi. La causa si chiuse con un accordo transattivo con l’assicurazione: 2 milioni di euro. “Pochi giorni dopo che mio marito telefonò alla Spina per farle questa comunicazione, si presentarono a casa nostra sia lei che il giudice Galiano”, ha raccontato la donna.

“Fu uno dei momenti più brutti della mia vita – ha proseguito il padre – in quanto fu come una pugnalata del tutto inaspettata. Galiano iniziò a dire che dovevamo dare non ricordo quante migliaia di euro alla moglie e che a lui proprio dovevamo dare 150mila euro. Disse in modo arrogante e sprezzante che anche in considerazione del fatto che abitavamo in una piccola casa in campagna, non certamente arredata in modo lussuoso e che lui, conoscendo il sindaco, conoscendo i servizi sociali, la polizia e chiunque contasse, ci avrebbe fatto togliere il bambino perché non eravamo in grado di assisterlo adeguatamente. Disse che lui conosceva i buoni e i cattivi”. E poi ancora: “Non potrò mai scordare che, sempre con un tono sprezzante, mi invitò a comprare con i soldi del risarcimento, una piccola casa in Grecia, in modo che lui venendo con la sua barca a vela poteva attraccare e fare una sosta da noi”.

Sono le dichiarazioni di presunte vittime, ma il riscontro a parere della Guardia di finanza, sarebbe nell’avvenuta transazione. Una cifra pari a 150mila euro era stata accreditata il 17 febbraio 2015 sul conto corrente bancario della filiale della Carime intestato alla suocera di Galiano, indagata per riciclaggio. Nelle prossime ore saranno fissati gli interrogatori di garanzia dei sei indagati arrestati, tre in carcere e tre ai domiciliari. L’inchiesta prosegue. Si attende anche la decisione del Tribunale del Riesame, a cui la procura ha già formulato appello, che dovrà pronunciarsi sulle ulteriori richieste d’arresto formulate dal pm titolare del fascicolo.

rif: https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/01/29/le-accuse-al-giudice-arrestato-a-brindisi-si-e-fatto-dare-150mila-euro-dalla-famiglia-di-un-bimbo-disabile-speculava-su-tragedie-umane/6083080/

Giudice arrestato a Bari, trovate altre armi: erano nascoste in un box a Ruvo di Puglia

Le indagini successive alla scoperta del primo arsenale in una villa alla periferia di Andria che ha portato all’arresto dell’ex gip De Benedictis e del caporal maggiore Serafino che utilizzava il garage

Erano custodite in un box nella disponibilità del caporal maggiore dell’Esercito Antonio Serafino, le armi trovate dalla squadra mobile di Bari in un box a Ruvo di Puglia. Pistole, fucili, lancia razzi, munizioni ma anche una sciabole e una baionetta sono stati trovati nell’ambito dell’inchiesta che il 13 maggio ha portato in carcere Serafino e alla notifica di una nuova ordinanza di custodia cautelare all’ex gip di Bari Giuseppe De Benedictis.

ll’epoca il magistrato era già stato arrestato per corruzione in atti giudiziari insieme all’avvocato barese Giancarlo Chiariello. Dopo il primo arresto fu scoperto un arsenale di armi da guerra in una masseria di Andria, di proprietà dell’imprenditore agricolo Antonio Tannoia, anche lui finito in carcere.

Circa 200 pezzi furono ritenuti di proprietà di De Benedictis. Il prosieguo delle indagini ha portato i poliziotti a scoprire un altro arsenale, questa volta in un box nella disponibilità di Serafino, che era stato ripetutamente intercettato mentre parlava con De Benedictis di armi, del loro approvvigionamento e anche mentre sparavano insieme a Ruvo, nella notte dell’ultimo Capodanno.

Sono in corso gli accertamenti degli investigatori – diretti dalla Procura di Lecce – per capire a chi appartengano le armi trovate a Ruvo.

rif: https://bari.repubblica.it/cronaca/2021/06/30/news/giudice_arrestato_a_bari_altre_armi_trovare_in_un_box_a_ruvo_e_del_militare_arrestato-308315803/

Soldi per «aggiustare» una sentenza: arrestato giudice tributario

La sede del Palazzo di Giustizia di Brescia - © www.giornaledibrescia.it

Alla base c’è una frode fiscale da oltre 90 milioni di euro, 17 dei quali sarebbero stati riciclati attraverso l’acquisto di fiches per il tappeto verde dei casinò di Venezia, Campione d’Italia, Sanremo e Saint-Vincent. Seguendo il flusso di denaro gli inquirenti sono arrivati a contestare episodi di corruzione.

È un’inchiesta che tocca Brescia e Milano quella coordinata dal sostituto procuratore Francesco Milanesi e condotta dalla Guardia di Finanza che ieri ha arrestato l’imprenditore 75enne Luigi Bentivoglio, con azienda a Rovato, Antonino Sortino, un prestanome che avrebbe emesso fatture false, residente a Lograto e detenuto già per altra causa, un giudice tributario della sezione bresciana, Donato Arcieri, e un consulente fiscale, Giuseppe Fermo.

Sono tutti ai domiciliari. Donato Arcieri, commercialista nato a Potenza, 59 anni compiuti ad agosto, residente nel Milanese è giudice in tre delle 26 sezioni della Commissione Tributaria Regionale per la Lombardia, una delle quali, quella bresciana, presieduta dall’ex procuratore aggiunto Carlo Nocerino che fino alla sua permanenza a Brescia, prima del trasferimento come procuratore capo a Busto Arsizio nelle scorse settimane, ha supervisionato l’inchiesta in cui risultano indagate 90 persone. Contestati a vario titolo i reati di corruzione in atti giudiziari, autoriciclaggio, dichiarazione fraudolenta ed emissione di fatture per operazioni inesistenti.

Contestualmente ai quattro arresti sono state perquisite 34 aziende tra la provincia di Brescia e quelle di Milano, Bergamo, Cremona, Novara, Modena e Bologna. Sequestrate e controllate fino al tardo pomeriggio di ieri cassette di sicurezza riconducibili ai principali indagati. Bloccati anche numerosi conti correnti. La corruzione. Sotto la lente di ingrandimento della Guardia di Finanza è finita una causa tributaria che si era chiusa nel marzo 2019 con una sentenza favorevole ad una società riconducibile agli imprenditori arrestati, per un valore di 255.000 euro di imposte non versate.

Nel processo tributario al centro del filone di inchiesta sulla corruzione, Giuseppe Fermo, il ragioniere consulente fiscale arrestato ieri, aveva il ruolo di difensore del contribuente, mentre Donato Arcieri quello di giudice relatore. Le Fiamme gialle hanno accertato e individuato numerosi trasferimenti di denaro dalla società che sarebbe stata favorita nella causa, al consulente fiscale Fermo, che avrebbe poi versato i soldi sui conti intestati a società rappresentate dallo stesso giudice tributario Donato Arcieri. A Giuseppe Fermo la Procura di Brescia era arrivata dopo i primi passi dell’indagine, nata da un controllo fiscale nell’agosto del 2019 a carico di una società bresciana, risultata per sei anni evasore totale e che dal 2013 al 2019 avrebbe emesso false fatture per circa 12 milioni di euro nei confronti di numerose imprese del nord Italia.

Dalle successive analisi è venuto alla luce quello che chi indaga definisce «un articolato sistema di frode che prevedeva il mascheramento della provenienza illecita degli introiti dell’evasione fiscale». Nel corso delle indagini, a giugno di un anno fa, nei capannoni di un’azienda coinvolta vennero sequestrati 779mila euro in contanti, nascosti tra le travi del tetto, in un muletto e in un tagliaerba. L’imprenditore titolare dell’azienda era stato arrestato in flagranza di reato per istigazione alla corruzione e condannato a due anni e due mesi. Aveva offerto ai finanzieri 70mila euro in contanti per chiudere senza contestazioni l’accertamento. L’intero tesoretto da 779mila euro è stato definitivamente confiscato.

Rif: https://www.giornaledibrescia.it/brescia-e-hinterland/soldi-per-aggiustare-una-sentenza-arrestato-giudice-tributario-1.3646485

Giustizia in Italia: mille innocenti in carcere all’anno, ma i giudici non pagano mai

«Ci aspettiamo che all’interno della riforma del Consiglio superiore della magistratura (la discussione alla Camera inizierà la prossima settimana, ndr) sia finalmente introdotta la responsabilità dei magistrati. Oggi oltre il 99% delle toghe ha una valutazione positiva, un dato che stride con le migliaia di persone che ogni anno, da innocenti, finiscono in carcere». A dirlo sono i giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, fondatori di “Errorigiudiziari.com”, l’associazione che da circa dieci anni cerca di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema dell’ingiusta detenzione. «L’intervento del capo dello Stato», proseguono, «sul punto ci trova assolutamente d’accordo ma ora la palla passa al legislatore: si può applaudire Mattarella cento volte ma se poi non lavori come devi tutto è destinato a rimare solo sulla carta».

Lattanzi e Maimone sul loro sito pubblicano una statistica degli errori giudiziari e delle somme erogate dal ministero dell’Economia a titolo di risarcimento. Dagli ultimi dati disponibili contenuti nella relazione 2017-2019 della Corte dei Conti emerge un progressivo aumento della spesa pubblica per i casi di errori giudiziari per ingiusta detenzione, passata da 38 a 48 milioni di euro. «Ufficialmente» sono mille l’anno i casi di persone arrestate ingiustamente, ma il vero numero è dieci volte di più. A spiegarlo è l’ex vice ministro della Giustizia Enrico Costa (Azione). «Il 90% delle ingiuste detenzioni», ricorda Costa, non viene risarcito dallo Stato sulla base del presupposto che l’arrestato ha «contribuito» colposamente all’errore del giudice, avvalendosi, ad esempio, della facoltà di non rispondere durante l’interrogatorio. Una facoltà prevista del codice». Per poter fare domanda di risarcimento, poi, serve una sentenza definitiva di assoluzione. Se il reato si è prescritto prima, come capita spessissimo, il periodo trascorso in custodia cautelare è destinato a finire a tarallucci e vino. La normativa, con questi paletti stringenti, è fatta apposta per scoraggiare la richiesta dei risarcimenti ed evitare spese aggiuntive per lo Stato. Ogni giorno dietro le sbarre viene risarcito con 250 euro.

Per fare un esempio, Raffaele Sollecito, assolto dall’accusa di omicidio di Meredith, non ha mai preso un euro per i 4 anni trascorsi agli arresti. Fino al 2017, inoltre, non esisteva una norma che obbligasse l’esecutivo a indicare il numero di persone sottoposte al carcere preventivo, quindi senza alcuna sentenza di condanna. Il legislatore, solo con la riforma delle misure cautelari del 2017, ha previsto che nella relazione che il governo deve presentare annualmente al Parlamento sull’applicazione delle misure cautelari personali, debba dare conto dei dati relativi alle sentenze di riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione pronunciate nell’anno precedente, «con specificazione delle ragioni di accoglimento delle domande e dell’entità delle riparazioni, nonché i dati relativi al numero di procedimenti disciplinari iniziati nei riguardi dei magistrati per le accertate ingiuste detenzioni, con indicazione dell’esito, ove conclusi». I dati, comunque, ad oggi«sono incompleti», prosegue ancora Costa. E quanti sono, infine, i magistrati chiamati a risarcire i propri errori? Dal 2010 al 2021 ci sono state solo otto condanne, con un solo magistrato chiamato a mettere mano al portafoglio. Cifra? 10mila euro

Rif: https://www.liberoquotidiano.it/news/giustizia/30371862/giustizia-italia-mille-innocenti-carcere-anno-giudici-non-pagano-mai.html

Magistrati indagati o condannati in quasi tutte le province: l’anno orribile della giustizia pugliese tra sesso, mazzette, armi e favori

Magistrati indagati o condannati in quasi tutte le province: l’anno orribile della giustizia pugliese tra sesso, mazzette, armi e favori
‘ex gip Antonio Savasta e i pm Emilio Arnesano e Michele Nardi condannati per accuse pesanti. L’ex procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo, il giudice civile Gianmarco Galliano e l’ex gip di Bari Giuseppe De Benedictis colpiti da misure cautelari in quattro distinte indagini che ruotano attorno a favori in cambio di appoggi lobbistici, soldi e regalie. Ad eccezione di Foggia, in Puglia non c’è Palazzo di giustizia che non sia stato colpito da almeno un’inchiesta negli ultimi anni

C’è chi era disposto a “inquinare e falsare processi” per “qualche rapporto sessuale” o “un significativo sconto nell’acquisto di una barca”. Chi era pronto a sistemare una sentenza civile in cambio di una “sponsorizzazione” fittizia per la sua barca a vela. Altri ne avevano fatto un “sistema”, trasferito da Trani a Taranto e che avrebbe lambito uno dei processi più importanti d’Italia, quello dell’ex Ilva. Qualcun altro aveva un solo obiettivo: “Ricavare il più rilevante profitto possibile”. E poi c’era chi, come l’ex gip di Bari Giuseppe De Benedictis, nascondeva 60mila euro in contanti nelle prese elettriche della sua abitazione. Mazzette in cambio di scarcerazioni facili. Per non parlare dell’arsenale da guerra che avrebbe occultato nelle campagne di Andria. Se lo scandalo Palamara ha imbarazzato l’intera categoria a livello nazionale, gli ultimi anni sono stati complicati soprattutto per i giudici pugliesi. A eccezione di Foggia, infatti, non c’è Palazzo di giustizia che non sia stato colpito da almeno un’inchiesta.

“SESSO E FAVORI” A LECCE
A Lecce l’ex pubblico ministero Emilio Arnesano – condannato a 9 anni di reclusione – ha permesso di ricostruire come l’ex magistrato “asserviva totalmente l’esercizio della sua funzione giudiziaria ad interessi privati per trarne miserevoli vantaggi”. Nelle 120 pagine scritte per argomentare la pena inflitta, il presidente del collegio potentino Federico Sergi, spiega che alcuni degli episodi venuti a galla grazie alle indagini rappresentano “l’acme dello squallore” per “la ferita inferta al prestigio della Magistratura” che Arnesano ha utilizzato “come uno strumento di scambio per ottenere favori sessuali”. Nelle carte emerge come, per ottenere sesso da una avvocatessa leccese, abbia addirittura archiviato l’accusa di evasione per un detenuto che era accusato di omicidio. I giudici scrivono che l’ex pm “non si poneva neppure il problema di valutare per quale reato fosse detenuto l’arrestato, quindi la personalità dell’arrestato e la sua conseguente pericolosità sociale”. Dagli atti infatti risultava che il cliente dell’avvocatessa “stava scontando una pena per vari reati, tra cui l’omicidio: una valutazione diligente di un caso simile avrebbe condotto all’esercizio dell’azione penale per il delitto di evasione, essendo a dir poco inverosimile che un condannato per omicidio possa ignorare la durata di un permesso premio concessogli”. Ma non c’era solo il sesso come merce di scambio per ottenere il suo interessamento. I giudici lucani hanno infatti condannato anche gli ex vertici dell’Asl salentina: 3 anni e 8 mesi all’ex direttore generale Ottavio Narracci e 5 anni per Carlo Siciliano responsabile di Medicina del Lavoro dell’ospedale leccese. Per Narracci l’accusa è di aver corrotto il magistrato per pilotare un processo nel quale era accusato di peculato. In cambio dei suoi interessamenti a favore dei due medici, Arnesano avrebbe ottenuto gratuitamente due battute di caccia e uno sconto di 17mila euro sulla barca di dieci metri comprata da Siciliano oltre all’assunzione per un certo periodo di parenti e amici dell’ex magistrato.

IL PREZZO DI UNA SENTENZA A BRINDISI
Cause pilotate, consulenze per centinaia di migliaia di euro, orologi e macchine costose, sponsorizzazioni fittizie ad associazioni sportive fatte da privati in favore della sua barca a vela. Sono queste le utilità che – secondo la procura di Potenza – avrebbe intascato il giudice civile di Brindisi Gianmarco Galianoarrestato a gennaio scorso con l’accusa di aver ottenuto denaro grazie alle cause di risarcimento per decessi per incidenti stradali o addirittura per la disabilità di un bambino causata da una malformazione seguita a una presunta colpa medica. Nell’inchiesta, che conta un totale di 21 indagati, sono coinvolti a piede libero altri due magistrati, Francesco Giliberti e Giuseppe Marseglia.

SULLA PELLE DEGLI OPERAI MORTI A TARANTO
“Per gli amici, i favori. Per gli altri, la legge”. Carlo Maria Capristo, ex procuratore capo di Trani e di Taranto, aveva una sorta di regola d’oro. E sulla base di quella massima gestiva la sua funzione di magistrato inquirente “orientata nel senso tipicamente corruttivo-collusivo” secondo il gip Potenza che ha disposto nei suoi confronti pochi giorni fa l’obbligo di dimora. “Un asservimento durevole della funzione giudiziaria” per ricevere in cambio “sia un sostegno lobbistico alle sue aspirazioni di carriera che benefici materiali”. Accanto a Capristo c’era l’avvocato Piero Amara: il legale, finito in carcere, era già stato arrestato per i falsi dossier su Eni. Dopo il primo arresto per le pressioni sulla pm di Trani Silvia Curione, questa volta Capristo è accusato di aver insinuato amici avvocati nelle grandi vicende giudiziarie che la procura ionica conduce contro l’ex Ilva. Oltre ad Amara, nel collegio difensivo dell’Ilva in As, ci sono le nomine dell’avvocato Giacomo Ragno, già condannato per il “Sistema Trani” come difensore di alcuni dirigenti dell’Ilva imputanti nel maxi processo Ambiente svenduto. Ma è soprattutto nei procedimenti penali per la morte di due operai che è apparsa la drammaticità della vicenda. Capristo, infatti, tramite il consulente Ilva e suo amico Nicola Nicoletti, avrebbe fatto nominare avvocati a lui vicini per difendere i dirigenti accusati di omicidio colpo per gli indenti mortali di Giacomo Campo e Alessandro Morricella. Una nomina che avrebbe, secondo l’accusa, garantito agli imputati una strada privilegiata per la chiusura del procedimento penale. E ai familiari degli operai, invece, la dimostrazione dell’assenza di giustizia.

IL SISTEMA TRANI
“Ricavare il più rilevante profitto possibile”. È questo secondo il tribunale di Leccel’obiettivo dell’ex gip di Trani Michele Nardi, condannato a novembre 2020 a 16 anni e 9 mesi di carcere perché ritenuto a capo di associazione a delinquere che in cambio di denaro e regali costosi orientata le inchieste. Oltre al carcere per Nardi è stata disposta anche l’estinzione del rapporto di lavoro con lo Stato e la confisca di beni, in solido con altri imputati, per un valore complessivo di 2 milioni e 200mila euro. Nella stessa vicenda sono coinvolti altri due magistrati tranesi giudicati con rito abbreviato: l’ex pubblico ministero Antonio Savastacondannato a 10 anni, e Luigi Scimè condannato a 4 anni e anche lui costretto a lasciare la toga. I fatti ruotano intorno all’imprenditore barese Flavio D’introno che in cambio di aiuto per numerose e burrascose vicende giudiziarie che lo vedono alla sbarra per usura e altri reati sovvenziona “sistematicamente” Nardi e Savasta “in cambio della tutela dei suoi interessi nell’ambito di numerose vicende giudiziarie penali, tributarie e civili”. A questi si aggiunge poi anche un ispettore di polizia, Vincenzo Di Chiaro, ritenuto “longa manus operativa tanto di Savasta quanto di D’Introno” e condannato a oltre 9 anni di carcere. Nardi – secondo il tribunale – è colui che stabilisce le regole organizzative dell’associazione e che stabilisce la ripartizione dei profitti, tanto che riserva a sé una percentuale fissa su tutte le “pratiche” che saranno gestite dal gruppo. Savasta agisce attivando le più disparate iniziative giudiziarie, tutte portate avanti con “una evidente distorsione dei poteri e doveri connessi alla pubblica funzione” perché “costantemente piegati al soddisfacimento di interessi privati”. Di Chiaro ha avuto, sempre secondo i giudici, il compito di predisporre false relazioni di servizio e comunicazioni di reato, tutte puntualmente “canalizzate” in modo tale da farle pervenire direttamente a Savasta. Quello che emerge è un quadro caratterizzato “da gravissime pressioni, omissioni, alterazioni di dati processuali, falsificazione di prove e di documenti, persino di interi fascicoli processuali nel contesto di uno stabile asservimento delle pubbliche funzioni ad interessi privati”. Nella vicenda è stato condannato a 4 anni di reclusione anche l’imprenditore Luigi D’Agostinoex socio di Tiziano Renzi che, in accordo con Savasta, avrebbe versato tangenti nel 2015 e controllato le dichiarazioni di alcuni testimoni in un’indagine sui reati fiscali di società riconducibili a se stesso affinché non venisse mai fuori il suo nome. E di nuovo compare il nome dell’avvocato Giacomo Ragno, condannato a 2 anni e 8 mesi, per aver individuato e messo a disposizione del sistema un uomo disposto a fornire false dichiarazioni e salvare D’introno da una delle vicende che lo coinvolgevano.

ARMI E DENARO A BARI
“Delinque fino all’ultimo momento, e oltre” l’ex gip di Bari Giuseppe De Benedictisfinito in carcere con l’accusa di corruzione in atti giudiziari insieme all’avvocato penalista Giancarlo Chiarello. Anche a Bari, il motore della devianza del magistrato è il denaro: mazzette in cambio di scarcerazioni di indagati. Non importa il calibro del criminale: più sono colpevoli e più alta è la somma da pagare. Persino elementi di spicco della criminalità organizzata barese e foggianariescono a lasciare il carcere grazie a De Benedictis e all’avvocato Chiarello, collettore di denaro per conto del giudice a cui destinava le richieste di scarcerazione. “Un’amicizia fondata su un illecito mercimonio della funzione giurisdizionale” che non si è affievolita nemmeno di fronte alla certezza che presto sarebbero stati arrestati. La loro “proclività a delinquere – si legge negli atti d’inchiesta – non è scemata neanche davanti alla consapevolezza del Chiariello di essere oggetto delle propalazione accusatorie dei collaboratori di giustizia e del De Benedictis di essere sottoposto ad indagine da parte della Procura di Lecce e che, in attesa della prevista restrizione cautelare, non disdegna l’ennesima dazione corruttiva”. Incassare, insomma, fino all’ultimo euro. Prima della tempesta. Durante le perquisizioni i carabinieri riescono a ritrovare 60mila euro nascosti nelle prese elettrichedell’abitazione del giudice. Ma soprattutto la somma di 1 milione e 300mila euroin contanti nascosti in tre zaini a casa del figlio dell’avvocato Chiarello. Ma c’è di più. Parallelamente anche la Squadra mobile di Bari sta indagando su quel magistrato che ama le armi. Nelle campagne di Andria i poliziotti scoprono un vero e proprio arsenale composto da mitragliette Uzi, fucili kalashnikov, mitragliatori d’assalto come M12 e Ar15, novantanove pistole, mine anticarro, bombe a mano, altri fucili, carabine di precisione, più circa 3.400 detonatori e 10 silenziatori per bombe a mano. De Benedictis e un caporal maggiore dell’esercito vengono descritti dal gip di Lecce come “autentici trafficanti in armi da guerra”. Di chi sono quelle armi? Del giudice, in gran parte, ma gli inquirenti non escludono che pistole, fucili e mitragliatori che siano in realtà “di soggetti terzi appartenenti a persone orbitanti nell’ambito della criminalità organizzata locale”.

GLI ANTICORPI
La magistratura possiede “gli anticorpi necessari per colpire i comportamenti devianti” e ha “ancora una volta nella nostra regione, dimostrato di saper guardare al proprio interno e individuare le più gravi criticità”. Sono le parole utilizzate dal procuratore di Lecce Leonardo Leone de Castris, dopo l’arresto di De Benedictis. Eppure nell’opinione pubblica qualcosa sta cambiando. I tanti magistrati onesti che quotidianamente svolgono il loro lavoro, devono imparare a difendersi dai loro stessi colleghi infedeli. E non solo con indagini e processi. Il procuratore di Potenza Francesco Curcio – che indaga sui magistrati di Lecce, Brindisi e Taranto – ha ribattezzato i suoi colleghi travolti da bufere giudiziarie “gli Arnesano” che “ci sono, ci sono stati, probabilmente continueranno ad esserci”. Perché? Perché all’interno della magistratura sopravvive un “girare la testa, un certo voltare la testa dall’altra parte, un certo modo corporativo di intendere il nostro mestiere” che diventa ”il terreno, il sostrato su cui Arnesano e gli Arnesano possono delinquere”. E quindi è la stessa magistratura che deve potenziare quegli anticorpi, rimettendo in discussione anche i criteri di valutazione e di assegnazione di responsabilità ai magistrati che sono diventate spesso una prassi consolidata in grado di creare “guasti giganteschi”. Per Curcio “i reati commessi da Arnesano sono, a mio avviso, la perfetta espressione di un modo di intendere l’attività di magistrato”: la “conquista di una postazione” che, una volta raggiunta priva alcuni colleghi di “interesse per l’attività che svolge” e di “amore per le cose che fa, per le carte che deve studiare”. Incentivi che evidentemente qualcuno ha trovato altrove: nel sesso, nel denaro, nel potere.


Rif: https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/06/15/magistrati-indagati-o-condannati-in-quasi-tutte-le-province-lanno-orribile-della-giustizia-pugliese-tra-sesso-mazzette-armi-e-favori/6226447/

Forse si è svegliato Mattarella e prende a picconate la magistratura

Forse si è svegliato Mattarella e prende a picconate la magistratura

Mattarella non è Cossiga. Non è neanche Pertini. Non gli piace alzare la voce, fare clamore. Noi nel titolo abbiamo scritto “picconate”, per ricordare il vecchio Presidente che voleva far circondare Palazzo dei Marescialli (cioè la sede del Csm) dai carabinieri, e tutti gli davano del pazzo ma aveva ragione lui; però è chiaro che Mattarella il piccone non lo sa usare e non gli piace: usa il fioretto, al massimo tira un ceffone.

Beh, stavolta un ceffone l’ ha tirato. In piena faccia alla magistratura. È stato il momento più importante e forte del suo discorso di insediamento pronunciato ieri pomeriggio a Montecitorio, durato 38 minuti e interrotto 52 volte dagli applausi. Ha usato parole dolci ma che assomigliano molto alle frustate. C’è una frase che non è stata notata, ma che è una frase di granito: ha chiesto che sia ristabilita “la certezza del diritto”. Avete presente tutti quelli che si impancano e strappano l’applauso chiedendo a ogni pié sospinto la certezza della pena? La certezza della pena è un’idiozia, spesso in contrasto col diritto. Lui ha detto invece ”certezza del diritto”, e di sicuro non gli è sfuggito il valore polemico di queste tre parole, perché Mattarella spesso è stato molto pauroso su questi temi, ma di diritto, questo è certo, ci capisce.

Martedì abbiamo aperto il giornale con un titolo un po’ furioso. Diceva così: “Il Mattarella bis pietra tombale sulla riforma della giustizia”. Forse – probabilmente – ci sbagliavamo. Comunque questo discorso di ieri del Presidente ci fa pensare che ci sbagliavamo, e noi, con tutta la nostra anima, speriamo che sia proprio così. Cioè speriamo che il Mattarella-due sia molto diverso dal Mattarella-uno, che prenda di petto i problemi che ieri, sobrio ma deciso, ha segnalato uno ad uno. Quali problemi?

Primo, la perdita di credibilità della magistratura. Secondo la rottura del rapporto di fiducia con la gente. Terzo, il rischio di sentenze ingiuste. Quarto, l’interesse eccessivo dei magistrati per il potere che sovrasta l’interesse per la giustizia. Quinto, il non funzionamento del Csm, travolto dalle correnti. Non è poco. E poi ha aggiunto, seppure con parole rapide, la sua denuncia sullo stato delle carceri, sovraffollate e – questo chiunque lo sa – sovraffollate soprattutto perché zeppe di persone imprigionate senza processo dai magistrati.

Poi Mattarella ha voluto anche concedere qualcosa. Ma pure in questo passaggio è stato prudente. Ha ricordato che l’indipendenza e l’autonomia della magistratura sono un bene prezioso, ma ha anche aggiunto che questa indipendenza va conquistata e difesa. E addirittura ha detto che non la si può difendere se non si riconquista la fiducia del popolo. Mi ha colpito questo discorso, perché non me lo aspettavo. Immaginavo che Mattarella avrebbe fatto, come ha fatto, uno splendido discorso sulle grandi questioni sociali, sul lavoro, sulle persone, sulla dignità, sulla violenza contro le donne (un po’ meno esplicito è stato sull’immigrazione, dove, forse per non indispettire la Lega, non ha mai usato la parola accoglienza), ma non speravo che potesse mettere la lancia in resta sulla giustizia. Quello che più mi ha stupito, però, è stata la reazione del Parlamento.

Questo è il Parlamento che non ha mai fatto un fiato per contestare lo strapotere della magistratura. È sempre stato coniglio. Soprattutto nella sua componente di sinistra. Succube delle procure e dei 5 Stelle. È il Parlamento che ancora non ha pronunciato neppure una vocale per fermare la persecuzione dell’ex parlamentare Giancarlo Pittelli. Eppure ieri è scattato in piedi e ha tributato il più lungo dei suoi applausi alle sferzate di Mattarella alla magistratura. Entusiasta. Persino i 5 Stelle lì a spellarsi le mani. Come è possibile? Ora possiamo sperare che il Parlamento si muova per riportare sotto controllo la magistratura? Era silenzioso e acquattato solo per la paura blu che nutre verso le procure, ma pronto alla rivolta? La copertura offertagli dal Quirinale gli è bastata? Beh, se sarà così, noi del Riformista, che siamo tra i pochi che lo hanno criticato, gli facciamo un monumento a Mattarella. Proprio qui a via Pallacorda.

Rif: https://www.ilriformista.it/forse-si-e-svegliato-mattarella-e-prende-a-picconate-la-magistratura-278191/