Depistaggio su inchiesta Borsellino, indagati gli ex pm Palma e Petralia | “Concorso in calunnia per favorire la mafia”

La Procura ha disposto lʼanalisi di 19 audiocassette su cui vennero registrati una serie di interrogatori. I poliziotti indagati avrebbero obbligato il finto pentito Vincenzo Scarantino ad accusare della strage persone innocenti

Depistaggio su inchiesta Borsellino, indagati gli ex pm Palma e Petralia | "Concorso in calunnia per favorire la mafia"

Non è più a carico di ignoti l’indagine della Procura di Messina sul depistaggiodell’inchiesta sulla strage di via d’Amelio, costata la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della sua scorta. I pm hanno iscritto nel registro degli indagati gli ex pm in servizio nel pool, Carmelo Petralia ed Annamaria Palma. Ai due e alle persone offese la Procura ha notificato l’esecuzione di accertamenti tecniciirripetibili.

Chi sono i magistrati indagati – Annamaria Palma attualmente è avvocato generale a Palermo, mentre Petralia ricopre la carica di procuratore aggiunto a Catania. Nell’ipotesi accusatoria, in concorso con i tre poliziotti sotto processo a Caltanissetta, Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, avrebbero depistato le indagini sulla strage.

Sette innocenti finirono all’ergastolo – Un depistaggio definito clamoroso nella sentenza di primo grado del processo Borsellino quater, costato l’ergastolo a sette innocenti. Il reato contestato ai magistrati e ai funzionari di polizia è la calunnia: i pm e i poliziotti avrebbero imbeccato tre falsi pentiti, costruiti a tavolino tra cui Vincenzo Scarantino, suggerendo loro di accusare falsamente dell’attentato persone ad esso estranee. Ai magistrati si contesta, oltre all’aggravante di avere favorito Cosa nostra, anche l’aggravante che deriva dal fatto che dalla calunnia è seguita una condanna a una pena maggiore di 20 anni. A Palma e Petralia è stato notificato dalla Procura di Messina, che indaga in quanto è coinvolto un magistrato in servizio a Catania, un avviso di accertamenti tecnici irripetibili. Stesso avviso è stato notificato ai sette condannati ingiustamente: Cosimo Vernengo, Gaetano La Mattina, Gaetano Murana, Gaetano Scotto, Giuseppe Urso e Natale Gambino, persone offese dal reato. Tranne Urso e Gambino, che non hanno nominato legali, gli altri sono difesi dagli avvocati Rosalba Di Gregorio e Pino Scozzola.

Accertamenti su audiocassette – Gli accertamenti tecnici irripetibili disposti dalla Procura di Messina riguardano le cassette con le intercettazioni delle conversazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino registrate durante il periodo in cui questi era sottoposto al programma di protezione. Periodo in cui, secondo una ipotesi accusatoria, Scarantino sarebbe stato indotto, anche con la violenza, dal pool di poliziotti che indagava sull’attentato a mentire sulla fase esecutiva della strage incolpando persone innocenti. Le cassette, molto risalenti nel tempo, potrebbero deteriorarsi, da qui la necessità di far partecipare agli accertamenti i consulenti degli indagati e delle persone offese. Del pool di investigatori che indagò sulla strage, guidati dall’ex capo della Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, poi deceduto, facevano parte i poliziotti Bo, Ribaudo e Mattei, ora sotto processo a Caltanissetta per calunnia aggravata, lo stesso reato contestato ai due pm dalla Procura di Messina, competente a indagare in quanto Petralia è in servizio a Catania. Per legge i pm della citta’ dello Stretto sono competenti infatti sui casi in cui i colleghi catanesi sono indagati o persone offese.

Rif:https://www.tgcom24.mediaset.it/cronaca/sicilia/depistaggio-su-inchiesta-borsellino-indagati-gli-ex-pm-palma-e-petralia-concorso-in-calunnia-per-favorire-la-mafia-_3213955-201902a.shtml

Depistaggio Borsellino, indagati per calunnia due pm che si occuparono dell’inchiesta sulla strage di via d’Amelio

La nuova indagine è stata aperta dalla procura di Messina: sotto inchiesta Carmelo Petralia e Anna Maria Palma, oggi aggiunto a Catania e avvocato generale a Palermo. La notizia dell’inchiesta è emersa perché alle persone sottoposte a indagini e alle parti lese la Procura ha notificato l’esecuzione di accertamenti tecnici irripetibili. Riguardano 19 cassette con le registrazioni delle conversazioni di Vincenzo Scarantino, il picciotto della Guadagna e falso pentito che con le sue dichiarazioni depistò la strage

Depistaggio Borsellino, indagati per calunnia due pm che si occuparono dell’inchiesta sulla strage di via d’Amelio

Due pm che indagarono sulla strage di via d’Amelio sono indagati per concorso in calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra. Si tratta di Carmelo Petralia e Annamaria Palma, attualmente procuratore aggiunto a Catania e avvocato generale a Palermo. All’epoca erano entrambi pm di Caltanissetta. Ventisette anni dopo la strage che uccise il giudice Paolo Borsellino e cinque uomini della scorta ci sono quindi due magistrati accusati del depistaggio dell’inchiesta. La notizia dell’inchiesta è diventata pubblica perché l’ufficio inquirente della città sullo Stretto ha notificato un avviso di accertamento tecnico irripetibili agli indagati e alle parti lese, cioè Gaetano Murana, Giuseppe La Mattina e Cosimo Vernengo, ingiustamente accusati nei primi processi. Oltre a Gaetano ScottoGiuseppe UrsoNatale Gambino.

Le 19 cassette e l’atto non ripetibile- Gli atti tecnici che devono compierere gli investigatori non sono ripetibili perché c’è il rischio che le prove vadano perdute. Riguardano 19 cassette con le registrazioni delle conversazioni di Vincenzo Scarantino, il picciotto della Guadagna e falso pentito che con le sue dichiarazioni depistò la strage. Venne ascoltato mentre era sotto protezione, un periodo in cui, secondo l’accusa, è stato indotto, anche con la violenza, dal pool di poliziotti che indagava sull’attentato, a mentire. Del pool di investigatori, guidati dall’ex capo della Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, poi deceduto, facevano parte i poliziotti oggi finiti a giudizio: Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. Sono occusati del depistaggio delle indagini, costato l’ergastolo a sette innocenti. Il reato contestato ai magistrati e ai funzionari di polizia è la calunnia: i pm e i poliziotti avrebbero imbeccato tre falsi pentiti. Ai magistrati si contesta, oltre all’aggravante di avere favorito Cosa nostra, anche l’aggravante che deriva dal fatto che dalla calunnia è seguita una condanna a una pena maggiore di 20 anni. Le cassette sono molto datate e l’ascolto potrebbe deteriorarle: da qui la necessità che all’accertamento, mai eseguito prima, partecipino anche i consulenti degli indagati e delle persone offese. Scarantino, secondo l’accusa, sarebbe stato picchiato e minacciato perché desse la versione di comodo “pensata” dagli investigatori. E costretto a imparare a memoria le fandonie da ripetere durante gli interrogatori. Il falso pentito, protagonista di ritrattazioni clamorose, ha poi svelato le pressioni subite. Attribuendole soltanto ai poliziotti. I”l dottor Di Matteo non mi ha mai suggerito niente, il dottor Carmelo Petralia neppure. Mi hanno convinto i poliziotti a parlare della strage. Io ho sbagliato una cosa sola: ho fatto vincere i poliziotti, di fare peccare la mia lingua e non ho messo la museruola…”, ha detto l’ex collaboratore solo poche settimane fa.

Come nasce l’inchiesta sui magistrati – L’indagine su Palma e Petralia nasce nello scorso novembre, quando la procura di Caltanissetta, che ha istruito il processo per il depistaggio delle indagini sull’attentato, ha trasmesso una tranche dell’inchiesta ai colleghi messinesi perché accertassero se nella vicenda, ci fossero responsabilità di magistrati. Così l’ufficio inquirente della città sullo Stretto ha aperto in un primo tempo un fascicolo di atti relativi, una sorta di attività pre-investigativa. Che adesso è diventata un’inchiesta per calunnia aggravata con alcune persone indagate. I fatti contestati sono stati commessi “in Caltanissetta e altrove, in epoca antecedente e prossima al settembre 1998”. La nuova indagine è condotta dal procuratore di Messina, Maurizio De Lucia,perché l’ufficio inquirente della città dello Stretto è competente quando sono coinvolti nelle vicende giudiziarie magistrati in servizio a Catania: ed è il caso di Petralia.

Le motivazioni del Borsellino Quater – Negli atti che i pm di Caltanissetta hanno inviato ai colleghi messinesi si fa riferimento alla sentenza del processo Borsellino quater. Nelle motivazioni dell’ultimo verdetto della strage i giudici della corte d’assise parlavano di depistaggio delle indagini sull’attentato al magistrato. “Questa Corte ritiene doveroso, in considerazione di quanto è stato accertato sull’attività di determinazione realizzata nei confronti dello Scarantino, del complesso contesto in cui essa viene a collocarsi, e delle ulteriori condotte delittuose emerse nel corso dell’istruttoria dibattimentale, di disporre la trasmissione al Pubblico ministero, per le eventuali determinazioni di sua competenza, dei verbali di tutte le udienze dibattimentali, le quali possono contenere elementi rilevanti per la difficile ma fondamentale opera di ricerca della verità nella quale la Procura presso il Tribunale di Caltanissetta è impegnata”, è il passaggio della sentenza con cui si dispone la trasmissione degli atti.

Fiammetta Borsellino: “Non parlo di indagini in corso” –“Preferisco non parlare di indagini ancora in corso”, ha detto Fiammetta Borsellino, figlia minore del giudice Paolo Borsellino. Fiammetta Borsellino ha partecipato a numerose udienze del processo sul depistaggio, dove si è costituita parte civile, e più volte ha lamentato il comportamento dei magistrati che indagarono sull’attentato. “Mio padre è stato lasciato solo, sia da vivo che da morto. C’è stata una responsabilità collettiva da parte di magistrati che nei primi anni dopo la strage – ha sempre ripetuto Fiammetta Borsellino – hanno sbagliato a Caltanissetta con comportamenti contra legem e che ad oggi non sono mai stati perseguiti né da un punto di vista giudiziario né disciplinare”.

Rif:https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/06/11/depistaggio-borsellino-indagati-per-calunnia-due-pm-che-si-occuparono-dellinchiesta-sulla-strage-di-via-damelio/5248433/

Strage di via D’Amelio, indagati pm che condussero l’inchiesta

Nella strage morirono il giudice Paolo Borsellino e gli uomini della scorta. Il reato ipotizzato è di concorso in calunnia aggravato dall’avere favorito Cosa nostra.

Non è più a carico di ignoti l’indagine della Procura di Messina sul depistaggio dell’inchiesta sulla Strage di via d’Amelio, costata la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta. I pm della città dello Stretto hanno iscritto nel registro degli indagati due magistrati del pool che indagò sull’attentato. Sarebbero Carmelo Petralia e Annamaria Palma. L’indagine, che ipotizza il reato di concorso in calunnia aggravato dall’avere favorito Cosa nostra, è condotta dal procuratore di Messina Maurizio De Lucia. In concorso con i 3 poliziotti sotto processo a Caltanissetta Annamaria Palma attualmente è avvocato generale a Palermo, mentre Petralia ricopre la carica di procuratore aggiunto a Catania. Nell’ipotesi accusatoria, in concorso con i tre poliziotti sotto processo a Caltanissetta (Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo), Palma e Petralia avrebbero depistato le indagini sulla strage. Un depistaggio definito clamoroso nella sentenza di primo grado del processo Borsellino quater, costato l’ergastolo a sette innocenti. Il reato contestato è la calunnia Il reato contestato ai magistrati e ai funzionari di polizia è la calunnia: i pm e i poliziotti avrebbero imbeccato tre falsi pentiti- costruiti a tavolino, tra cui Vincenzo Scarantino-, suggerendo loro di accusare falsamente dell’attentato persone a esso estranee. Ai magistrati si contesta, oltre all’aggravante di avere favorito Cosa nostra, anche quella che deriva dal fatto che dalla calunnia è seguita una condanna a una pena maggiore di 20 anni. A Palma e Petralia oggi è stato notificato dalla Procura di Messina, che indaga in quanto è coinvolto un magistrato in servizio a Catania, un avviso di accertamenti tecnici irripetibili. Stesso avviso è stato notificato ai sette condannati ingiustamente: Cosimo Vernengo, Gaetano La Mattina, Gaetano Murana, Gaetano Scotto, Giuseppe Urso e Natale Gambino, persone offese dal reato. Tranne Urso e Gambino, che non hanno nominato legali, gli altri sono difesi dagli avvocati Rosalba Di Gregorio e Pino Scozzola. Gli accertamenti tecnici irripetibili riguardano i nastri delle intercettazioni del falso pentito Scarantino Gli accertamenti tecnici irripetibili disposti dalla Procura di Messina riguardano le cassette con le intercettazioni delle conversazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino registrate durante il periodo in cui questi era sottoposto al programma di protezione. Periodo in cui, secondo una ipotesi accusatoria, Scarantino sarebbe stato indotto, anche con la violenza dal pool di poliziotti che indagava sull’attentato, a mentire sulla fase esecutiva della strage, incolpando persone innocenti. Le cassette, molto risalenti nel tempo, potrebbero deteriorarsi, da qui la necessità di far partecipare agli accertamenti i consulenti degli indagati e delle persone offese. Del pool di investigatori che indagò sulla strage, guidati dall’ex capo della Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, poi deceduto, facevano parte i poliziotti sotto processo Bo, Ribaudo e Mattei.
Rif:http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Strage-via-D-Amelio-inchiesta-depistaggio-indagati-pm-che-condussero-inchiesta-5dbe753b-161d-4bb8-83ff-42e0c71054cf.html

Depistaggio strage di via D’Amelio, colpo di scena: “Magistrati indagati per calunnia”


„Gli avvisi sarebbero stati notificati ad Annamaria Palma e Carmelo Petralia, pm che indagarono sull’attentato del 19 luglio 1992 in cui persero la vita anche il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta. Ad aprire il fascicolo la Procura di Messina“

Depistaggio strage di via D’Amelio, colpo di scena: “Magistrati indagati per calunnia”

distanza di 27 anni dalla strage di via D’Amelio, in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta, svolta nell’inchiesta sul depistaggio delle indagini sull’attentato. La Procura di Messina – fa sapere l’Adnkronos – ha iscritto nel registro degli indagati alcuni magistrati che indagarano sui fatti del 19 luglio 1992. L’accusa è di calunnia aggravata. Gli avvisi di accertamento tecnico non ripetibile sul riversamento di 19 supporti magnetici contenenti alcune registrazioni prodotte in passato sarebbero stati notificati nel pomeriggio ad Annamaria Palma, avvocato generale di Palermo, e Carmelo Petralia, procuratore aggiunto di Catania.

Tutto comincia lo scorso novembre quando la Procura di Caltanissetta – che ha istruito il processo per il depistaggio delle indagini – trasmette una parte del fascicolo a Messina per accertare eventuali responsabilità di magistrati nella vincenda. I documenti fanno riferimento alla sentenza del processo Borsellino quater nella quale i giudici della Corte d’assise parlavano di depistaggio delle indagini sull’attentato al magistrato.

Depistaggio su cui i pm di Caltanissetta hanno indagato e poi incriminato tre poliziotti del pool che indagò sull’eccidio (Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei). Ma nella sentenza si denunciavano anche gravi omissioni relative al coordinamento dell’indagine, costata la condanna all’ergastolo di otto innocenti.

Il lavoro di coordinamento spettava ai pm dell’epoca. Tra questi appunto Carmelo Petralia, Nino Di Matteo, attualmente alla Dna, Annamaria Palma e Giovanni Tinebra, nel frattempo deceduto.

Dopo aver ricevuto i documenti da Caltanissetta la Procura di Messina avrebbe aperto un fasciolo, diventato poi una vera e propria inchiesta per calunnia aggravata.“

Rif: http://www.palermotoday.it/cronaca/inchiesta-depistaggio-strage-via-d-amelio-magistrati-pm-indagati.html

Borsellino, sul depistaggio indagati alcuni magistrati: spuntano 19 microcassette

Borsellino, sul depistaggio indagati alcuni magistrati: spuntano 19 microcassette

Nuovo colpo di scena nell’inchiesta sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio a Palermo. A distanza di 27 anni, la Procura di Messina, come apprende l’Adnkronos, ha iscritto nel registro degli indagati, con l’accusa di calunnia aggravata, alcuni magistrati. Sarebbero gli ex pm in servizio nel pool che indagò sulla strage di via D’Amelio, Carmelo Petralia ed Annamaria Palma. L’indagine, che ipotizza il reato di concorso in calunnia aggravato dall’avere favorito Cosa nostra, è condotta dal procuratore di Messina Maurizio De Lucia.

Depistaggio Borsellino, indagati per calunnia due pm che indagarono sulla strage

Depistaggio Borsellino, indagati per calunnia due pm che indagarono sulla strage

Nuovo colpo di scena nell’inchiesta sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio. A distanza di 27 anni la procura di Messina ha iscritto nel registro degli indagati, con l’accusa di calunnia aggravata, due ex magistrati della procura di Caltanissetta, Annamaria Palma e Carmelo Petralia, che si occuparono della prima inchiesta sulla bomba del 19 luglio 1992 raccogliendo le dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino.

Ai due magistrati – Avvocato generale a Palermo e procuratore aggiunto a Catania – è stato notificato dalla Dia di Catania un avviso per un accertamento tecnico irripetibile che si terrà il prossimo 19 giugno al Racis dei carabinieri, a Roma. Il procuratore Maurizio de Lucia vuole verificare se su alcune cassette con delle intercettazioni di Scarantino, ritrovate di recente dalla procura di Caltanissetta, ci siano impronte o altre tracce utili. Una pista per provare a ricostruire la complessa macchina del depistaggio attorno al balordo del quartiere palermitano della Guadagna trasformato in un provetto Buscetta.

Intanto, a Caltanissetta, prosegue il processo che vede imputati tre poliziotti per il depistaggio: il dirigente Mario Bo’, i sottufficiali Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di aver contribuito a creare il falso pentito Scarantino, che per anni ha tenuto lontana la verità sulla strage Borsellino. Al centro del giallo, l’ex capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera (deceduto nel 2002), lui avrebbe guidato Scarantino. E per i giudici di Caltanissetta che hanno celebrato l’ultimo troncone del processo Borsellino – quello sui falsi pentiti dell’indagine – “c’è un collegamento tra il depistaggio e l’occultamento dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, sicuramente desumibile dall’identità di uno dei protagonisti di entrambe le vicende”. La Barbera, dunque. Nei mesi scorsi, la procura di Caltanissetta ha inviato la sentenza Borsellino quater a Messina per accertare eventuali responsabilità dei magistrati che lavorarono con Scarantino. Il quale, sentito nei giorni scorsi nel processo depistaggio, ha però chiamato fuori dal caso il procuratore Petralia.

Rif:https://palermo.repubblica.it/cronaca/2019/06/11/news/depistaggio_borsellino_indagati_per_calunnia_pm_che_indagarono_su_strage-228538487/

Omicidio di Borsellino: indagati 2 magistrati

 © ANSA

(ANSA) – PALERMO, 11 GIU – Non è più a carico di ignoti l’indagine della Procura di Messina sul depistaggio dell’inchiesta sulla Strage di via d’Amelio costata la vita al giudice Paolo Borsellino e degli agenti della scorta. I pm della città dello Stretto hanno iscritto nel registro degli indagati alcuni magistrati – non è ancora noto quali – del pool che indagò sull’attentato. Agli indagati e alle persone offese oggi la Procura ha notificato l’esecuzione di accertamenti tecnici irripetibili.

Rif:http://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2019/06/11/borsellino-indagati-magistrati_61082655-4a40-441e-a2ba-1a03c2cb8ce3.html

Faida tra toghe sulle poltrone Anm in tilt, il Csm è a rischio

Area, Unicost, Autonomia e Indipendenza: schematizzando, la sinistra, il centro e i «grillini» di Piercamillo Davigo. Tutti inferociti con la quarta corrente, la destra di Magistratura Indipendente, colpevole di voler tenere al loro posto i tre suoi membri del Csm coinvolti – ma non ufficialmente indagati – nell’inchiesta di Perugia. «Ritirate l’autosospensione e tornate in servizio», dice Mi ai suoi. «Dimettetevi immediatamente», ribattono gli altri. Ne nasce uno scontro lacerante, che spacca in profondità la magistratura italiana, e apre le porte a qualunque scenario.

Purtroppo in ballo non ci sono solo valori «alti», lo scontro non è solo e non tanto tra garantisti e giustizialisti. Di mezzo c’è l’occupazione del potere, la lotta per le poltrone all’interno del Csm. Se i tre consiglieri moderati si dimettessero, i loro posti verrebbero presi da uno di sinistra e da due grillini. Se invece il Csm si dimettesse in blocco e si tornasse a votare, la corrente di Davigo probabilmente sparirebbe (anche perché il suo fondatore non potrebbe più candidarsi, essendo proibiti due mandati consecutivi) e la destra potrebbe puntare a fare il pieno di voti. Così (o anche così) si spiega la contrapposizione frontale di queste ore.

Che la «questione morale» emersa dalle carte dell’indagine di Perugia si riduca a guerra di potere e di seggiole può sembrare grottesco. Di sicuro c’è che nessuna delle correnti è disposta a fare un passo indietro, a fare mosse che avvantaggerebbero gli avversari. «Area» nel pomeriggio di ieri con un suo comunicato cerca di riportare la discussione su toni più nobili, indicando i pericoli che corrono «non solo l’autogoverno della magistratura, ma la stessa giurisdizione, la sua autonomia e la sua indipendenza». Ma anche stavolta senza una riga di autocritica per i lunghi anni di partecipazione alla lottizzazione selvaggia delle cariche.

Il pericolo, dicono le «toghe rosse», è che se Magistratura Indipendente non convince gli autosospesi a dimettersi, a venire spazzato via sia l’intero Csm. Prospettiva realistica, indubbiamente. Il primo a non tollerare un Consiglio superiore che restasse per intero al suo posto come se nulla fosse accaduto sarebbe il suo presidente, ovvero il capo dello Stato. Sergio Mattarella lo ha spiegato con chiarezza al vicepresidente, David Ermini, quando lo ha convocato al Quirinale. Ermini è corso a riferirlo ai quattro autosospesi. Loro hanno preso tempo in attesa degli eventi. Ora, dopo l’appello di Magistratura Indipendente, hanno un buon motivo per restare al loro posto. Se Mattarella non vuole vederli più a Palazzo de’ Marescialli dovrà liquidare l’intero Csm.

L’aspetto più singolare è forse che a tirare le fila dello scontro, dettando la linea dura a Magistratura Indipendente, sia Cosimo Ferri: che è il leader storico della corrente, ma è anche deputato del Partito democratico, e che era presente (non si sa in quale delle due vesti) agli incontri intercettati dalla Procura di Perugia nell’inchiesta per corruzione a carico di Luca Palamara, leader di Unicost. È Ferri l’ispiratore del documento con cui la corrente ha deciso di salvare il posto ai consiglieri coinvolti nell’indagine: approvato all’unanimità, con la sola astensione di Pasquale Grasso, da appena due mesi presidente dell’Anm. Che in serata abbandona la corrente ma mantiene la carica.

Rif:http://www.ilgiornale.it/sites/default/files/styles/large/public/foto/2019/06/05/1559738524-lapresse-20190604190407-29548576.jpg

Corruzione, patteggiano il parlamentare Gennuso e i due magistrati De Lipsis e Caruso

https://www.tp24.it/immagini_articoli/12-05-2019/1557656627-0-corruzione-patteggiano-parlamentare-gennuso-magistrati-lipsis-caruso.jpg

Hanno patteggiato la pena il parlamentare regionale sospeso Giuseppe Gennuso, l’ex presidente del Consiglio di giustizia amministrativa della Sicilia Raffaele Maria De Lipsis e l’ex consigliere della Corte dei Conti, Luigi Pietro Maria Caruso coinvolti nell’inchiesta per corruzione della Procura di Roma. L’esponente politico, difeso dall’avvocato Carlo Taormina ha rimediato un anno ed 8 mesi, 2 anni e 6 mesi per gli altri.

Secondo i magistrati, Gennuso avrebbe pagato una tangente da 80 mila euro per vincere il ricorso al Cga di Palermo ed ottenere una nuova tornata elettorale, in 9 sezioni tra Pachino e Rosolini, a seguito della sparizione parziale dal palazzo di giustizia di Siracusa delle schede relative alle consultazioni del 2012. Il giudizio favorevole del Cga consentì in effetti all’esponente politico di ottenere un seggio all’Ars a scapito dell’attuale sindaco di Priolo, Pippo Gianni. A mediare con i giudici, secondo la ricostruzione dell’accusa, sarebbero stati gli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore, coinvolti in diverse inchieste dei magistrati di Messina, Roma e Milano, che li accusano di essere al centro di un sistema corruttivo in grado di orientare sentenze per favorire i loro clienti o gruppi imprenditoriali vicini.

I due professionisti, un paio di mesi fa, hanno patteggiato a Roma la pena per le presunte sentenze pilotate al Consiglio di Stato: 3 anni di reclusione per Amara e a 2 anni e nove mesi per Calafiore. «Io avrei fatto la causa fino in fondo – dice l’avvocato Carlo Taormina, legale di Gennuso – ma ci sono stati dei contrattempi e degli equivoci per cui Gennuso era sfibrato ed è stato preso per stanchezza. Francamente mi spiace molto, perché dal punto di vista della sostanza e della qualificazione giuridica io ritengo che non ci siano gli elementi per essere ritenuti responsabili. Faremo, comunque, ricorso in Cassazione in merito alla qualificazione giuridica.

Mi sono riservato questa possibilità». Le rivelazioni di Calafiore avrebbero permesso ai magistrati romani di comprendere le modalità di pagamento della presunta tangente: «40 mila lui li ha dati – ha detto Calafiore nel corso dell’interrogatorio – prima della sentenza, quella relativa all’annullamento delle elezioni…» ma secondo quanto prospettato dall’accusa, i soldi sarebbero finiti nelle mani di Caruso, indicato come l’anello di congiunzione con De Lipsis. Gennuso ha sempre sostenuto di aver versato quei soldi a Calafiore ma per la sua attività professionale di avvocato. Oltre ai due professionisti siracusani, il castello accusatorio della Procura di Roma è stato eretto grazie alle dichiarazioni di un imprenditore siracusano, Alessandro Ferraro. «Amara mi aveva detto – ha spiegato Ferraro – che aveva fatto tutto Calafiore… era sottinteso che si erano messi d’accordo per rifare le elezioni proprio in quelle sezioni dove Gennuso era molto più forte».

La banda dei giudici corrotti: l’inchiesta che sta sconvolgendo la magistratura

Sentenze vendute, elezioni annullate, depistaggi. C’è una vera e propria rete di toghe sporche al lavoro da Milano alla Sicilia.

La banda dei giudici corrotti: l'inchiesta che sta sconvolgendo la magistratura

Giustizia corrotta, ai massimi livelli. Con una rete occulta che corrode il potere giudiziario dall’interno, arrivando a minare i pilastri della nostra democrazia. Un’inchiesta delicatissima, coordinata dalle Procure di Roma, Messina e Milano, continua a provocare arresti, da più di un anno, tra magistrati di alto rango. Non si tratta di casi isolati, con la singola toga sporca che svende una sentenza. L’accusa, riconfermata nelle diverse retate di questi mesi, è molto più grave: si indaga su un sistema di contropotere giudiziario, con tutti i crismi dell’associazione per delinquere, che si è organizzato da anni per avvicinare, condizionare e tentare di corrompere un numero indeterminato di magistrati. Qualsiasi giudice, di qualunque grado.

Al centro dello scandalo ci sono i massimi organi della giustizia amministrativa: il Consiglio di Stato e la sua struttura gemella siciliana. Sono giudici di secondo e ultimo grado: decidono tutte le cause dei privati contro la pubblica amministrazione con verdetti definitivi (la Cassazione può intervenire solo in casi straordinari). Molti però non sono magistrati: vengono scelti dal potere politico. Eppure arbitrano cause di enorme valore, come i mega-appalti pubblici. Interferiscono sempre più spesso nelle nomine dei vertici di tutta la magistratura, che la Costituzione affida invece al Csm. Possono perfino annullare le elezioni. L’indagine della procura di Roma ha già provocato decine di arresti, svelando storie allucinanti di giudici amministrativi con i soldi all’estero, buste gonfie di contanti, magistrati anche penali asserviti stabilmente ai corruttori, giri di prostituzione minorile e sentenze svendute in serie, «a pacchetti di dieci». Con tangenti pagate anche per annullare il voto popolare. Un attacco alla democrazia attraverso la corruzione.

L’antefatto è del 2012: un candidato del centrodestra in Sicilia, Giuseppe Gennuso, perde le elezioni per 90 preferenze e contesta il risultato, avvelenato da una misteriosa vicenda di schede sparite. In primo grado il Tar boccia tutti i ricorsi. Quindi il politico siciliano, secondo l’accusa, versa almeno 30 mila euro a un mediatore, un ex giudice, che li consegna al presidente del Consiglio di giustizia amministrativa della Sicilia, Raffaele Maria De Lipsis. Che nel gennaio 2014 annulla l’elezione e ordina di ripetere il voto in nove sezioni dei comuni di Pachino e Rosolini: quelle dove è più forte Gennuso. Che nell’ottobre 2014 conquista così il suo seggio, anche se ha precedenti per lesioni, furto con destrezza ed è indiziato di beneficiare di voti comprati. Il politico respinge ogni accusa. Che oggi risulta però confermata dalle confessioni di due potenti avvocati siciliani, Piero Amara e Giuseppe Calafiore, arrestati nel febbraio 2018 come grandi corruttori di magistrati.

L’esistenza di una rete strutturata per comprare giudici era emersa già con le prime perquisizioni. Nel luglio 2016, in casa di un funzionario della presidenza del consiglio, Renato Mazzocchi, vengono sequestrati 250 mila euro in contanti e una copia appuntata di una sentenza della Cassazione favorevole a Berlusconi sul caso Mediolanum. Altre indagini portano a scoprire, come riassume il giudice che ordina gli arresti, «un elenco di processi, pendenti davanti a diverse autorità giudiziarie», con nomi di magistrati affiancati da cifre. Uno di questi è Nicola Russo, presidente di sezione del Consiglio di Stato, nonché giudice tributario. Quando viene arrestato, nella sua abitazione spuntano atti di processi amministrativi altrui, chiusi in una busta con il nome proprio di Mazzocchi. Negli stessi mesi Russo viene sospeso dalla magistratura dopo una condanna in primo grado per prostituzione minorile. Oggi è al secondo arresto con l’accusa di essersi fatto corrompere non solo dagli avvocati Amara e Calafiore, ma anche da imprenditori come Stefano Ricucci e Liberato Lo Conte. Negli interrogatori Russo conferma di aver interferito in diversi processi di altri giudici, su richiesta non solo di Mazzocchi, ma anche di «magistrati di Roma» e «ufficiali della Finanza». Ma si rifiuta di fare i nomi. Per i giudici che lo arrestano, la sua è una manovra ricattatoria: l’ex giudice cerca di «controllare questa rete riservata» di magistrati e ufficiali «in debito con lui per i favori ricevuti».

Anche De Lipsis, per anni il più potente giudice amministrativo siciliano, ora è agli arresti per due accuse di corruzione. Ma è sospettato di aver svenduto altre sentenze. La Guardia di Finanza ha scoperto che la famiglia del giudice ha accumulato, in dieci anni, sette milioni di euro: più del triplo dei redditi ufficiali. Scoppiato lo scandalo, si è dimesso. Ma anche lui ha continuato a fare pressioni su altri giudici, che ora confermano le sue «raccomandazioni» a favore di aziende private come Liberty Lines (traghetti) e due società immobiliari di famiglia dell’avvocato Calafiore, che progettavano speculazioni edilizie nel centro storico di Siracusa (71 villette e un ipermercato) bocciate dalla Soprintendenza.

L’inchiesta riguarda molti verdetti d’oro. Russo è accusato anche di aver alterato le maxi-gare nazionali della Consip riassegnando un appalto da 338 milioni alla società Exitone di Ezio Bigotti e altri ricchi contratti pubblici all’impresa Ciclat. Per le stesse sentenze è sotto inchiesta un altro ex presidente di sezione del Consiglio di Stato, Riccardo Virgilio: secondo l’accusa, aveva 751 mila euro su un conto svizzero. Per ripulirli, il giudice li ha girati a una società di Malta degli avvocati Amara e Calafiore.

Tra gli oltre trenta indagati, ma per accuse ancora da verificare, spicca un altro presidente di sezione, Sergio Santoro, ora candidato a diventare il numero due del Consiglio di Stato.

A fare da tramite tra imprenditori, avvocati e toghe sporche, secondo l’accusa, è anche un altro ex magistrato amministrativo, Luigi Caruso. Fino al 2012 era un big della Corte dei conti, poi è rimasto nel ramo: secondo l’ordinanza d’arresto, consegnava pacchi di soldi alle toghe sporche ancora attive. Lavoro ben retribuito: tra il 2011 e il 2017 l’ex giudice ha versato in banca 239 mila euro in contanti e altri 258 mila in assegni.

Amara, come avvocato siciliano dell’Eni, è anche l’artefice della corruzione di un pm di Siracusa, Giancarlo Longo, che in cambio di almeno 88 mila euro e vacanze di lusso a Dubai aprì una fanta-inchiesta giudiziaria ipotizzando un inesistente complotto contro l’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi. Un depistaggio organizzato per fermare le indagini della procura di Milano sulle maxi-corruzioni dell’Eni in Nigeria e Congo. Dopo l’arresto, Longo ha patteggiato una condanna a cinque anni. Ma la sua falsa inchiesta ha raggiunto il risultato di spingere alle dimissioni gli unici consiglieri dell’Eni, Luigi Zingales e Karina Litwak, che denunciavano le corruzioni italiane in Africa.

Nella trama entra anche il potere politico, proprio per i legami strettissimi tra Consiglio di Stato e governi in carica. Giuseppe Mineo è un docente universitario nominato giudice del Consiglio siciliano dalla giunta dell’ex governatore Lombardo. Nel 2016 vuole ascendere al Consiglio di Stato. A trovargli appoggio politico sono gli avvocati Amara e Calafiore, che versano 300 mila euro al senatore Denis Verdini, che invece nega tutto. L’ex ministro Luca Lotti però conferma che proprio Verdini gli chiese di inserire Mineo tra le nomine decise dal governo Renzi. Alla fine il giudice raccomandato perde la poltrona solo perché risulta sotto processo disciplinare per troppi ritardi nelle sue sentenze siciliane.

Tra i legali ora indagati c’è un altro illustre avvocato, Stefano Vinti, accusato di aver favorito un suo cliente, l’imprenditore Alfredo Romeo, con una tangente mascherata da incarico legale: un “arbitrato libero” (un costoso verdetto privato) affidato guarda caso al padre del solito Russo. Proprio lui, l’ex giudice che sta cercando di usare lo squadrone delle toghe sporche, ancora ignote, per fermare i magistrati anti-corruzione.