Tiscali: Tsunami Csm: corruzione, lottizzazione, rivalse e progetti “eversivi”. La resa dei conti tra toghe

C’è la corruzione, presunta. La lottizzazione dei vertici di procure e tribunali. I giornalisti amici che si prestano a diffondere dossier farlocchi per non dire avvelenati. C’è il disegno, anche questo presunto e al limite dell’eversivo, di controllare gli uffici chiave delle procure italiane, Brescia che controlla Milano, Perugia che controlla Roma, Caltanissetta che controlla Palermo. Ci sono i magistrati più anziani, costretti ad andare in pensione a 70 anni per via della riforma Renzi del 2014, che adesso intravedono la possibilità di una rivalsa. C’è anche, infine, l’occasione servita su un piatto d’argento, di regolare i conti con quel che resta del renzismo che dalle parti del Pd è sempre una presenza ingombrante nel progetto di rinascita del centrosinistra.

Giuseppe Pignatone, ex 'dominus' della Procura romana, e il magistrato Luca Palamara

I sei filoni dell’inchiesta

Si fa presto a dire “l’inchiesta sul CSM”. Il fatto è che dietro e dentro quella “comoda” frasetta ci sono almeno altre 5-6 storie tutte importanti, persino gravi, talvolta intrecciate ma che non si deve fare l’errore di confondere. Cosa che invece sta puntualmente accadendo. In questo modo la magistratura, indebolita dallo scandalo, diventa territorio di conquista di chi da anni cerca di limitarne l’autonomia e l’indipendenza. Dopo dieci giorni di silenzio – quasi che nessuna forza politica, meno che mai quelle adesso in maggioranza, potessero o volessero mettere bocca in una faccenda che tutto sommato conoscono e accettano da anni, per non dire da sempre – ieri è partito il coro di chi chiede la riforma del Csm e, più in generale, della magistratura. Tanto che il dossieraggio del ministro dell’Interno sui magistrati che hanno scritto sentenze che hanno demolito il decreto sicurezza e l’osanna di dichiarazioni e interventi “adesso basta, la magistratura è fuori controllo – non sono gli effetti collaterali dell’inchiesta sul Csm ma forse il vero obiettivo di questa incredibile storia.

La corruzione

Sei filoni, che menti raffinatissime stanno legando insieme in un gigantesco ed incomprensibile nodo per poi magari buttare via il bimbo insieme all’ acqua sporca. Tutta questa storia inizia nel febbraio 2018 quando l’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e l’aggiunto Paolo Ielo ricevono dai colleghi di Messina il fascicolo sulla rete di contatti di due avvocati, Pietro Amara e Giuseppe Calafiore, che dalla Sicilia avevano messo in piedi un sistema di corruzione dove viaggi a Dubai, vacanze in hotel di lusso,bustarelle fatte recapitare in ufficio tra bottiglie di champagne erano la merce di scambio per condizionare sentenze o confezionare dossier farlocchi per armare esposti contro i nemici del momento. La rete partiva dalla Sicilia, arrivava a Roma e si allungava fin dove c’era bisogno. Amara e Calafiore hanno patteggiato. E riempito verbali. Una maglia di questa rete è, secondo la procura di Perugia, il pm della procura di Roma Luca Palamara, ex membro del Csm ed ex presidente dell’Anm, in predicato fino a dieci giorni fa di diventare aggiunto a piazzale Clodio. Anche per lui viaggi all’estero, vacanze di lusso, un anello di brillanti da regalare ad un’amica. Persino soldi (40 mila )per nominare il collega (ora ex) Longo a procuratore capo di Gela. Nomina mai avvenuta perché non gradita al Presidente Mattarella.

La lottizzazione

E’ grande e amaro lo stupore nell’opinione pubblica nel leggere che l’assegnazione della procura di Roma, l’ufficio della pubblica accusa più importante del paese ed equivalente ad un paio di ministeri, è una faccenda tra correnti della magistatura. Ora però sarebbe da ipocriti fare le vergini e stupirsi del fatto che i vari incarichi direttivi della magistratura rispondono anche a criteri di appartenenza ad una corrente o all’altra e al peso specifico che quella corrente misura in quel momento. Dopo un ventennio in cui la correnti di sinistra (Md e Verdi) hanno goduto di ottima salute, adesso siamo tornati al predominio delle correnti più di centro (Unicost, quella di Palamara) e destra (Mi) (Cosimo Ferri, deputato pd) lasciando alla novella A&I di Davigo, ex di Mi, la libertà di posizionarsi dove meglio crede. Tutti sanno – compresi Lega e 5 Stelle che adesso chiedono la riforma del Csm – che l’assegnazione avviene per titoli, certamente, per meriti, ma anche per appartenenza. E se potessimo leggere la mappa delle procure d’Italia in base alla corrente di appartenenza, vedremmo venir fuori un disegno di perfetto bilanciamento e specchio dei rapporti di forza attuali. Nella guerra per la procura Roma, il fatto che i tre candidati siano di Unicost (Creazzo) o Mi (Viola e Lo Voi) , ha certamente fatto arrabbiare Area (sinistra) che è rimasta fuori dalla grande spartizione. Anche Primo Presidente e Procuratore generale della Cassazione sono infatti di quelle due correnti. Non si può escludere che anche questo elemento abbia dato pubblicità ai fatti – corruzione e nomine – legandoli insieme. Così fan tutti e così tutti sanno. Il timore di una serie di ricorsi a raffica contro gli ultimi anni di nomine è fondato ma sarebbe una gigantesca ipocrisia. Auspicabile che il meccanismo cambi una volte per tutte. Ma da ora in avanti perché finora è andata bene così a tutti.

Giornalisti “amici”

E’ un altro aspetto della cosiddetta “inchiesta sul Csm”. Giornalisti che seguono la giudiziaria e su cui poteva contare il pm di Roma Stefano Fava (indagato per violazione di segreto e favoreggiamento) nella costruzione del dossieraggio contro l’aggiunto Paolo Ielo obiettivo di due diversi rancori: Palamara lo considerava nemico perché è stato Ielo ad inviare a Perugia le carte dell’inchiesta Amara in cui lui stesso risulta parte del sistema; Fava ce l’aveva con lui perché nel tempo gli aveva contestato il modo di condurre le indagini, quella su Amara ad esempio, ritirando la delega. Anche qui, niente di nuovo: i giornalisti coltivano fonti, soprattutto nella giudiziaria, di cui diventano spesso canali esclusivi.Giusto? Sbagliato? L’inchiesta sul Csm è stata, fin da subito, anche una guerra tra giornali. Il Giornale ieri ipotizzava anche un giro di danaro utile alla fabbrica dei dossier. La differenza sta nell’essere una buca delle lettere. E nel farlo a pagamento. Vedremo.

Il controllo delle procure chiave

Nella geografia del potere giudiziario, le procure di Brescia, Perugia e Caltanissetta sono tra gli incarichi più strategici. Questione di potere di indagine: quegli uffici controllano Milano, Roma e Palermo tre procure che possono incidere e molto sul piano politico con le loro inchieste. Roma, poi, nel settennato di Pignatone ha dimenticato il porto delle nebbie e aperto l’abisso sui sistemi criminali della Capitale. Un’operazione di svelamento che deve essere portata avanti. Secondo l’informativa del Gico della Finanza, braccio operativo della procura umbra, il king maker Luca Palamara, e non solo lui, mirava a questo tipo di controllo territoriale posizionando ai vertici degli uffici toghe amiche. Per questioni di puro potere. Sarebbero una quarantina i nomi di magistrati coinvolti, consapevolmente o meno, in questo progetto. Che in procura a Roma è stato definito “eversivo”.

La vendetta delle toghe contro gli ultimi scampoli di renzismo

La goccia che ha reso insostenibile – molti magistrati già non la sopportavano più, gli stessi che ora chiedono le dimissioni dalla magistratura dei colleghi coinvolti – la grande ipocrisia del potere delle correnti sulle nomine è stata la presenza di Luca Lotti, deputato Pd, ex sottosegretario alla Presidenza del consiglio, uomo ombra di Matteo Renzi , agli incontri per definire il nome del nuovo procuratore di Roma. Scelta sofferta e fratricida perché alla fine Lo Voi, il favorito, e Viola (che invece è stato il più votato in Commissione al Csm) sono entrambi di Mi. Il fatto grave è che Lotti è un imputato della procura di Roma (inchiesta Consip) e nei fatti era come se stesse dando il gradimento a chi dovrà giudicarlo. Il fatto che fosse presente anche Ferri (ora Pd ma un tempo legato a Verdini) è meno rilevante perché Ferri da anni è il consulente del centrosinistra sul fronte magistratura. Su questo dato si è scatenato un doppio fuoco di fila. L’ex procuratore nazionale antimafia Franco Roberti (ora eurodeputato Pd) è stato chiarissimo: “Nel 2014 il governo Renzi, all’apice del suo effimero potere, con decreto legge, abbassò improvvisamente l’età pensionabile dei magistrati da 75 a 70 anni. Quella sciagurata iniziativa era dettata da un duplice interesse: liberare in anticipo una serie di posti direttivi per fare spazio a cinquantenni rampanti anche come consiglieri di ministri; tentare di influenzare le nuove nomine in favore di magistrati ritenuti (a torto o a ragione) più “sensibili”. Roberti è stato una delle tante vittime illustri del pensionamento anticipato. Lo stesso di cui sarà vittima a breve anche Pier Camillo Davigo (salvo proroghe che potrebbe riconoscergli lo stesso Csm) e ministro Guardasigilli ombra dei 5 Stelle. Nota margine su Lotti: par di capire che l’ex sottosegretario non accetterà di passare per un puparo che trama di notte nelle hall degli alberghi con un pugno di magistrati.

Il faccia a faccia

Tirato per il bavero perché nessuno, fino a ieri, e neppure il Pd ha detto una parola sull’indagine e le sue mille facce, il segretario Zingaretti ieri ha incontrato Lotti“per ascoltare le spiegazioni e tentare una prima valutazione comune”. Lo staff del segretario si è molto risentito quando l’incontro è passato per “atto di solidarietà”. Il fatto è che lo stesso Zingaretti ha un po’ le mani legate visto che è indagato per finanziamento illecito, fondi ricevuti – ma è ancora tutto da accertare – dai due avvocati Amara e Calafiore che sono all’origine di questo caos. E non può fare del tutto ciò che una parte del Pd, come Roberti, sta chiedendo: affondare quel che resta del renzismo prima che si possa riorganizzare.

La riforma sul tavolo

Lo tsunami Csm offre uno straordinario assist a chi da trent’anni vuole mettere le mani sulla magistratura. E anche i 5 Stelle, paladini delle toghe e del giustizialismo, si ritrovano, loro malgrado, dalla stessa parte di Salvini e di chi mal sopporta le indagini della magistratura. Ieri il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e il ministro dell’Interno hanno parlato della necessità di “un intervento urgente” sul Csm. Salvini tira per la giacca anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, numero uno del Consiglio superiore e regista silenzioso in queste lunghe giornate della tutela e dell’operatività dell’attuale plenum dove, prima volta nella storia, cinque membri togati sono dimessi o autosospesi perché presenti agli incontri per decidere le nomine a tavolino. Salvini è sicuro che “il Capo dello Stato dirà o farà qualcosa sulla vicenda visto che è il supremo garante” dell’organo di autogoverno della magistratura”. Come si interverrà, è ancora tutto da decidere. Anche perché si tratta di una riforma costituzionale che richiede tempi lunghi. Riforma del Csm (prevista dal contratto di governo) e riforma del processo penale (voluta da Salvini) potrebbero cambiare presto ruolo e funzioni della magistratura. Come mai è successo nei settant’anni della Repubblica.

Rif: https://notizie.tiscali.it/politica/articoli/tsunami-csm/

Il Giornale: La Tangentopoli dei magistrati. Nella “cupola” pure i giornalisti

“La Gdf a caccia di chi gestiva i fondi usati per alterare le nomine nelle Procure. Nel mirino i contatti del pm Fava con i cronisti del “Fatto” e della “Verità” sul dossier contro Pignatone.

Non era solo una faccenda di potere. A trasformare in un mercato a cielo aperto la nomina dei capi degli uffici giudiziari, a inquinare fin nelle falde più profonde i meccanismi posti a tutela dell’indipendenza della magistratura, c’erano anche i soldi.

Un fiume di quattrini che ha oliato le procedure di selezione, spostato equilibri, convinto gli incerti. È questo il grande «non detto» dell’inchiesta che sta travolgendo, più dei singoli giudici, l’intera istituzione, il terzo potere dello Stato nei suoi organismi e nel suo prestigio.

La parte emersa dell’inchiesta sta nel cd che la Procura di Perugia ha trasmesso al Consiglio superiore della magistratura, con i risultati di un anno di intercettazioni eccellenti, a partire da quella di Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati. É il materiale che ha già travolto Palamara e Luigi Spina, membro del Csm, e che ha costretto altri quattro componenti del Consiglio ad autosospendersi. È materiale quasi brutale nella sua chiarezza: emerge la rete dei favori, delle faide politiche, della connection micidiale con giornalisti e mass media.”

Rif:http://www.ilgiornale.it/news/politica/gdf-caccia-chi-gestiva-i-fondi-usati-alterare-nomine-nelle-1706831.html

I magistrati furbetti che fanno milioni con le aste immobiliari (Alessandro Di Giacomo, Chiara Mazzaroppi Francesco Mazzaroppi, Gemma Cucca, Elisabetta Carta)

Case e ville comprate per poco e rivendute a prezzi da capogiro. Così un gruppo di toghe in Sardegna lucrava sulle gare e sulle speculazioni edilizie.

I magistrati furbetti che fanno milioni con le aste immobiliari

Magistrati proprietari di ville “vista mare” da milioni di euro o che comprano immobili da capogiro ai prezzi ribassati dell’asta e poi li rivendono al valore di mercato, intascandosi la differenza. In barba alla legge che prevede che le toghe non possano partecipare alle aste giudiziarie, per ovvi motivi di conflitti di interessi.

Invece a Tempio Pausania, in Sardegna, c’erano giudici che facevano speculazioni edilizie facendo vincere le gare ad amici i quali poi li nominavano come aggiudicatari. E a quel punto, i magistrati rivendevano quegli immobili al triplo del prezzo.

Un giro di affari smascherato da altri magistrati, quelli di Roma, in particolare il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il pubblico ministero Stefano Fava, che hanno iniziato a indagare nel 2016 su una villa affacciata sul mare di Baia Sardinia.

L’immobile, appartenuto a un noto imprenditore della zona finito male, venne messo all’asta e aggiudicato, complice il giudice fallimentare Alessandro Di Giacomo, a un avvocato «per persona da nominare». Le persone che poi sono state indicate erano Chiara Mazzaroppi, figlia dell’ex presidente del tribunale di Tempio Pausania, Francesco, e il di lei compagno, Andrea Schirra, anche loro magistrati in servizio (presso il tribunale di Cagliari). La villa, grazie alle «gravi falsità» contenute nella perizia, per usare le parole del gip di Roma Giulia Proto, è stata pagata 440 mila euro. Un ribasso ottenuto con «vizi macroscopici nella procedura di vendita»: tra l’altro si certificava la presenza in casa del comodatario che in realtà era morto qualche mese prima. A nulla erano valse segnalazioni e proteste dei creditori: il giudice ha deciso di ignorarle. Per garantire alla figlia del suo ex capo, o forse direttamente a lui, un affare immobiliare non da poco: l’intenzione era di ristrutturare il complesso e di rivenderlo a 2 milioni di euro. Ovvero con una plusvalenza di 1,6 milioni.

Insomma, un affare niente male. Per il quale, poco prima di Natale, il giudice Alessandro Di Giacomo è stato punito con l’interdizione a un anno dalla professione. I Mazzaroppi, padre e figlia, e Schirra sono indagati.

L’indagine ha svelato anche una serie di affari simili per i quali, però, non è possibile procedere: i reati sono già prescritti. Dalle carte depositate dalla procura di Roma, infatti, si scopre che gli affari immobiliari di Francesco Mazzaroppi hanno origini ben più lontane. Correva l’anno 1999 quando il giudice Di Giacomo, ancora lui, assegnò a un’avvocatessa, Tomasina Amadori (moglie del suo collega Giuliano Frau), il complesso alberghiero “Il Pellicano” di Olbia, una struttura da 34 camere. Amadori, a quel punto, indicò come aggiudicataria la Hotel della Spiaggia Srl, società riconducibile al commercialista Antonio Lambiase. Il prezzo dell’operazione era poco più di un miliardo di lire. Un anno dopo, “Il Pellicano” venne venduto da Lambiase, vicino a Mazzaroppi padre, a 2,3 miliardi: più del doppio del prezzo di acquisto. Scrive il pm di Roma Stefano Fava: «Risultano agli atti gli stretti rapporti economici intercorrenti tra Antonio Lambiase e Francesco Mazzaroppi. Lambiase ha infatti acquistato un terreno in località Pittolongu di Olbia cedendone poi metà a Rita Del Duca, moglie di Mazzaroppi.

Su tale terreno Lambiase e Mazzaroppi hanno edificato due ville», nelle quali vivono tuttora. Chiosa il pm: «Le evidenziate analogie, oggettive e soggettive, con la vicenda relativa all’aggiudicazione dell’immobile di Baia Sardinia, nonché la perfetta sovrapponibilità delle condotte dimostrano come anche la vendita a prezzo vile dell’albergo “Il Pellicano” sia conseguente a condotte illecite, non più perseguibili penalmente perché prescritte».

A corredo di tutto ciò, la procura di Roma ha raccolto anche una serie di testimonianze tra le quali quella dell’allora presidente della Corte d’Appello di Cagliari, Grazia Corradini, che non usa mezzi termini: «In relazione all’acquisto del terreno su cui Francesco Mazzaroppi aveva edificato la sua villa c’erano state in passato delle segnalazioni relative a rapporti poco limpidi con i locali commercialisti e in particolare con Lambiase, consulente del Consorzio Costa Smeralda, insieme al quale avrebbe acquistato più di dieci anni fa il terreno su cui era stata realizzata la villa».

La Corradini racconta poi di come a queste segnalazioni fossero seguite due indagini, una penale e una predisciplinare senza alcun esito.

Poi Corradini parla anche della villa a Baia Sardinia: «Lavicenda indubbiamente appare poco limpida se si considera il prezzo di vendita di una villa assai prestigiosa che si affaccia su Baia Sardinia, il cui prezzo di mercato si può immaginare pari ad almeno alcuni milioni di euro». Una questione su cui «ha relazionato il presidente del Tribunale di Tempio, la cui relazione allego unitamente ai documenti acquisiti che sembrerebbero confermare una “regolarità formale” nelle procedure di vendita, come ci si poteva attendere visto che eventuali interferenze è difficile che risultino dagli atti della procedura».

Il presidente del tribunale di Tempio chiamato in causa era Gemma Cucca, che ora è presidente della Corte d’Appello di Cagliari, dove è succeduta proprio alla Corradini. Anche lei è indagata dalla procura di Roma.

Ce ne sarebbe abbastanza, ma il torbido al tribunale di Tempio Pausania continua con le rivelazioni di segreto d’ufficio, ingrediente indispensabile in un sistema che si reggeva su favori e amicizie. Sempre nel corso delle indagini sulla villa di Baia Sardinia, infatti, gli inquirenti hanno sentito due indagati parlare tra di loro del fatto che il gip Elisabetta Carta, che aveva firmato il 1 giugno 2016 un decreto d’urgenza per intercettarli, li avesse prima avvisati. Scrive il giudice di Roma: «La vicenda è particolarmente grave: il gip che ha autorizzato una intercettazione informa gli indagati che sono sotto intercettazione dicendo loro di “stare attenti”, il tutto mentre le intercettazioni sono ancora in corso».

Elisabetta Carta si è difesa negando le accuse a suo carico e ammettendo solo di avere avuto con la coppia buoni rapporti lavorativi. Per lei è già stata disposta l’interdizione per un anno.

Non è finita: di quelle intercettazioni, chissà come, venne informato anche Francesco Mazzaroppi, all’epoca presidente della Corte d’Appello di Cagliari e – come detto – padre dell’acquirente Chiara Mazzaroppi.
Tutto questo sembrava normale, nel tribunale di Tempio Pausania, dove i magistrati erano preoccupati soltanto di fare affari immobiliari.

Rif: http://espresso.repubblica.it/inchieste/2018/04/10/news/i-magistrati-furbetti-che-fanno-affari-con-le-aste-immobiliari-1.320423

Banca Etruria, il Csm sul pm Rossi Roberto: “Chiese la proroga dell’incarico e fu pagato”

Tra le questioni controverse l’omissione dell’eventuale conflitto di interessi per i due incarichi iniziati ai tempi del governo Letta e proseguiti con quello di Renzi. Le due consulenze furono pagate in totale 7500 euro.

Niente procedura di trasferimento per incompatibilità nei confronti del procuratore di Arezzo Roberto Rossi. Secondo il Csm non ci sono gli estremi, cioè non ci sono state condotte seppure “indipendenti da colpa” tali da mettere il magistrato “in condizione di non esercitare le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialità“. E in particolare “non ci sono elementi per sostenere un rapporto di conoscenza tra il dottor Rossi con il ministro Maria Elena Boschi, tale da mettere in discussione il profilo dell’imparzialità e dell’indipendenza del magistrato nella trattazione di vicende processuali che potenzialmente potrebbero coinvolgere parenti del citato ministro”. A deciderlo è stato il plenum del Consiglio superiore della magistratura che così ha archiviato il caso del capo dei pm di Arezzo finito all’attenzione di Palazzo dei marescialli per un incarico di consulenza giuridica svolta per il governo fino alla fine del 2015, quando già aveva avviato le prime indagini su Banca Etruria, di cui è stato per un periodo vicepresidente Pierluigi Boschi, padre del ministro per le Riforme. Ma seppure resa più soft, la delibera approvata non risparmia critiche al procuratore di Arezzo, a cui si rimprovera di non aver pensato di rinunciare all’incarico di consulenza quando cominciò a indagare su Banca Etruria e di essersi autoassegnato i relativi fascicoli, coinvolgendo nelle inchieste i suoi sostituti solo dopo le sue audizioni davanti al Csm.

Non si è trattato di una decisione indolore né per Rossi, né per il Csm. Per il magistrato perché gli atti sono stati comunque inviati al pg della Cassazione, titolare dell’azione disciplinare nei confronti delle toghe per le valutazioni di sua competenza. Per il Csm perché la discussione è stata costellata da pesanti critiche sul lavoro svolto dalla prima commissione, che si occupa delle procedure disciplinari, accusata di aver “travalicato i suoi compiti”, con un’istruttoria quasi da “Superprocura“, dalla laica di Forza Italia Elisabetta Casellati e dai togati di Magistratura Indipendente, Claudio Galoppi e Lorenzo Pontecorvo.

E anche perché sulla delibera finale si sono astenuti gli stessi relatori, il presidente della commissione, l’ex ministro Renato Balduzzi, e il togato di Area Piergiorgio Morosini, che pure avevano presentato delle modifiche al testo per venire incontro alle richieste di Unicost, la corrente in cui “milita” il procuratore di Arezzo. L’accordo è saltato quando a sorpresa il gruppo delle toghe di centro ha presentato un emendamento, approvato a maggioranza, per escludere l’inserimento degli atti nel fascicolo del procuratore.

Risultato: la delibera finale è passata con 11 voti (dei togati di Unicost, di Magistratura Indipendente, dei laici di Ncd Antonio Leone e di Sel Paola Balducci e del primo presidente della Cassazione), il no del laico di Forza Italia Pierantonio Zanettin (contrario a un testo ammorbidito perché convinto che “l’immagine e la credibilità del procuratore siano definitivamente compromesse”) e l’astensione oltre che dei relatori, dell’intero gruppo di Area, del pg della Cassazione e del vicepresidente Giovanni Legnini (per assicurare il numero legale, come ha spiegato lo stesso numero due di Palazzo dei marescialli).

Nuove verifiche su Etruria: i dubbi sulle versioni del procuratore di Arezzo, Roberto Rossi.

Lettere e verbali di Palazzo Koch su fusione e bancarotta. Per trovare un partner l’istituto incaricò come advisor Rothschild e Lazar. Ci saranno altri controlli su Boschi senior e sulle responsabilità del cda.

La commissione parlamentare d’inchiesta dovrà svolgere nuove verifiche su quanto accaduto nel crac di Banca Etruria. In vista dell’ufficio di presidenza fissato per martedì che deciderà sulle audizioni del governatore di Bankitalia Vincenzo Visco e dell’ex amministratore delegato di Unicredit Federico Ghizzoni, saranno acquisiti nuovi documenti che riguardano i rapporti tra l’istituto di credito aretino e Bankitalia. Le carte già a disposizione mostrano infatti che durante l’audizione di giovedì il procuratore Roberto Rossi, titolare dell’indagine, avrebbe fornito versioni diverse da quelle che risultano agli atti. Tanto che alcuni esponenti dell’opposizione lo accusano addirittura di «aver mentito prospettando una situazione ben diversa da quella che invece ha portato al fallimento». Sono proprio le relazioni, gli scambi di lettere e le citazioni per le azioni di responsabilità a fornire il quadro che stride con le dichiarazioni dell’alto magistrato. Anche tenendo conto che Rossi ha dichiarato di avere tuttora in corso «approfondimenti sul ruolo di Bankitalia e Consob», pur consapevole che si tratta di attività per le quali è competente la procura di Roma.

L’operazione con Pop Vicenza

«Ci è sembrato un poco strano — attacca Rossi — che la Banca d’Italia avesse inoltrato a Banca Etruria un invito di integrazione con la Banca Popolare di Vicenza che era in condizioni simili». In realtà la sequenza emersa dagli atti racconta una storia diversa. Il 3 dicembre 2013 l’allora governatore Visco scrive una lettera al presidente del cda di Etruria Giuseppe Fornasari per evidenziare le «rilevanti criticità» dovute tra l’altro «alle dimensioni del portafoglio deteriorato» e sottolinea la convinzione che la Banca «non sia più in grado di percorrere in via autonoma la strada del risanamento». Dunque «dispone la convocazione del cda entro 10 giorni dal ricevimento della missiva con all’ordine del giorno l’integrazione della Popolare in un gruppo di adeguato standing in grado di apportare le necessarie risorse patrimoniali, manageriali e professionali». Per questo Etruria nomina come advisor «per il supporto» nella ricerca Rothschild e Lazard che contattano 27 gruppi. Si fa avanti soltanto PopVicenza che il 29 gennaio 2014 formalizza il proprio interesse. Il direttore generale chiede un incontro in Bankitalia per illustrare la strategia: procedere con «un’Opa per cassa su almeno il 90 per cento del capitale». Bankitalia dà conto delle trattative in corso con numerosi verbali. L’ultimo, datato 18 giugno 2014, è un «appunto per il direttorio» in cui il capo della Vigilanza Carmelo Barbagallo dà atto che il negoziato è fallito «perché Etruria ha formalmente respinto la proposta di Opa». E quindi propone «un’approfondita ed estesa opera di revisione degli impieghi riguardante la corretta classificazione di vigilanza e un’aggiornata valutazione del grado di recuperabilità». 

Roberto Rossi e Pier Ferdinando Casini (Imagoeconomica)
La posizione di Pierluigi Boschi

Il secondo punto sul quale saranno effettuati ulteriori controlli riguarda la posizione dell’ex vicepresidente Pier Luigi Boschi, padre del sottosegretario Maria Elena. Durante la sua audizione il procuratore Rossi ha dichiarato che Boschi e gli altri componenti dei cda a partire dal 2010 non sono tra gli indagati per bancarotta «perché non hanno partecipato alle riunioni degli organi della banca che hanno deliberato finanziamenti finiti poi in sofferenza». Ma anche perché «non avevano informazioni sufficienti sulle operazioni». Una posizione che ha scatenato le opposizioni. Con una richiesta formale il senatore di Idea Andrea Augello accusa il magistrato di «non aver detto la verità, esponendo una tesi falsa» e per questo ha chiesto al presidente Pier Ferdinando Casini di sollecitare Bankitalia alla trasmissione di nuovi documenti. E spiega: «Tutte le linee di credito e richiedono un formale rinnovo, generalmente ogni 18 mesi. È impossibile che il nuovo cda si sia baloccato solo con crediti insolventi, ma deve aver rinnovato tra il 2010 e il 2012 tutti i crediti privi di garanzie erogati nel biennio precedente. E questo è peggio di quanto fatto da chi li ha concessi anche perché ha ritardato la possibilità di avviare una procedura di recupero, finché la situazione non è divenuta insostenibile e il cda ha proceduto ad una serie di svalutazioni, azzerando il patrimonio aziendale».

Procutore Rossi Roberto: La toga che indaga sulle banche lavora pure per Palazzo Chigi Il procuratore capo di Arezzo sarebbe un consulente del governo di Renzi. Lavora per il Dipartimento degli affari giuridici

Il caso di Banca Etruria si allarga ed emerge un nuovo conflitto di interessi. Quello della Boschi è noto, ma adesso entra in campo pure la procura di Arezzo.

A svelare il retroscena è il Fatto Quotidiano, il procuratore capo di Arezzo, quello della Procura che indaga sul presunto conflitto d’interessi degli ex vertici dell’istituto, sarebbe un consulente del governo a Palazzo Chigi. Poi, come spiega Il Fatto Quotidiano, alla voce si sono aggiunge le evidenze: nel numero 81 dell’elenco di consulenti e collaboratori della presidenza del Consiglio ecco materializzarsi il nome di Roberto Rossi, con tanto di curriculum. E nel cv si legge, tra le altre, che l’uomo è “attualmente Procuratore della Repubblica facente funzioni presso la Procura della Repubblica di Arezzo”.

L’uomo è stato nominato nel febbraio di quest’anno tra i consulenti di lavoro del governo Renzi. Di fatto Rossi è a capo della Procura che sta indagando sul caso che lambisce Pier Luigi Boschi, padre del ministro delle Riforme ed ex vicepresidente di Banca Etruria. Nel dettaglio, Rossi è consulente del Dagl (Dipartimento degli affari giuridici e legislativi), a cui capo c’è Antonella Manzione. L’incarico della toga scade il 31 dicembre 2015, e prevede una retribuzione di 5mila euro lordi. Il suo compito a Palazzo Chigi viene così descritto: “Attività di consulenza, instruendo e rendendo pareri in materie riguardanti il diritto penale, la procedura penale, sanzioni amministrative, nonché su problemi concernenti”.

l “Paese delle Meraviglie di Maria Etruria Boschi e Pm Rossi”

Scrive Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano di oggi 19 dicembre 2015: “Dobbiamo tante scuse a Maria Etruria Boschi. Vittime della cultura del sospetto, avevamo ipotizzato un suo conflitto d’interessi nella storiaccia della Banca del Buco. Poi l’abbiamo sentita alla Camera e ogni dubbio è svanito. Ci ha convinti. Se lo dice lei, osservatrice super partes, se lo conferma il suo amico premier e se lo ribadiscono i deputati della maggioranza che devono guadagnarsi la ricandidatura, allora è vero: nessun conflitto d’interessi. Alla luce della sua impeccabile ricostruzione e di testimonianze di prima mano, la storia di Banca Etruria e dei tre decreti salva-banche va riscritta così.”

“4.5.2013. L’assemblea dei soci di Etruria, sull’orlo del crac, nomina vicepresidente Pier Luigi Boschi, membro del Cda dal 2011 e incidentalmente padre di Maria Elena, casualmente promossa due mesi prima ministra delle Riforme e dei Rapporti col Parlamento. Lei, azionista della banca come tutta la famiglia, è pazza di gioia: “Bravo papà, era ora che si accorgessero di quanto sei bravo. Temevo che la mia nomina a ministro ti stroncasse la carriera, invece la tua bravura ha vinto su tutto. Malgrado io sia ministra, ti han promosso lo stesso: sei un fuoriclasse”. Infatti il nuovo vertice, in un anno, riesce a depauperare il patrimonio sociale per 5 miliardi.”

“1.11.2014. Anche Bankitalia si accorge di quant’è bravo Pier Luigi e appioppa una multa di 2,5 milioni a tutto il vertice di Etruria (144 mila euro a lui) per “violazione delle disposizioni sulla governance”, “carenze nell’organizzazione e nei controlli interni”, “carenze nella gestione e nel controllo del credito”, “carenze nei controlli”, “violazioni in materia di trasparenza”, “omesse e inesatte segnalazioni agli organi di vigilanza” – continua Marco Travaglio nel suo l’editoriale dal titolo “Morto un Gelli se ne fa un altro” -. Ma è tutta invidia, infatti lui resta al suo posto finché Bankitalia impone al governo di commissariare Etruria. Il procuratore di Arezzo, Roberto Rossi, indaga per falso in bilancio e altri reati sugli ultimi Cda, dove sedeva papà Boschi, che però è uno dei pochi a non venire indagato.”

“20.1.2015. Il governo Renzi, a Borse chiuse per evitare speculazioni, annuncia un decreto per trasformare le banche popolari in Spa. Tra queste c’è Etruria, che Bankitalia ha già dato per morta. Ma ora pare risorta e i risparmiatori, anziché fuggire a gambe levate, tornano a fidarsi. Nei giorni precedenti però qualcuno se l’è cantata, infatti c’è la corsa ad acquistare titoli di popolari, specie di Etruria.” (…)

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(Articolo intero su dagospia.com) – Dobbiamo tante scuse a Maria Etruria Boschi. Vittime della cultura del sospetto, avevamo ipotizzato un suo conflitto d’ interessi nella storiaccia della Banca del Buco. Poi l’ abbiamo sentita alla Camera e ogni dubbio è svanito. Ci ha convinti. Se lo dice lei, osservatrice super partes, se lo conferma il suo amico premier e se lo ribadiscono i deputati della maggioranza che devono guadagnarsi la ricandidatura, allora è vero: nessun conflitto d’ interessi.

Alla luce della sua impeccabile ricostruzione e di testimonianze di prima mano, la storia di Banca Etruria e dei tre decreti salva-banche va riscritta così.

4.5.2014. L’ assemblea dei soci di Etruria, sull’ orlo del crac, nomina vicepresidente Pier Luigi Boschi, membro del Cda dal 2011 e incidentalmente padre di Maria Elena, casualmente promossa due mesi prima ministra delle Riforme e dei Rapporti col Parlamento. Lei, azionista della banca come tutta la famiglia, è pazza di gioia: “Bravo papà, era ora che si accorgessero di quanto sei bravo. Temevo che la mia nomina a ministro ti stroncasse la carriera, invece la tua bravura ha vinto su tutto. Malgrado io sia ministra, ti han promosso lo stesso: sei un fuoriclasse”. Infatti il nuovo vertice, in un anno, riesce a depauperare il patrimonio sociale per 5 miliardi.

1.11.2014. Anche Bankitalia si accorge di quant’ è bravo Pier Luigi e appioppa una multa di 2,5 milioni a tutto il vertice di Etruria (144 mila euro a lui) per “violazione delle disposizioni sulla governance”, “carenze nell’ organizzazione e nei controlli interni”, “carenze nella gestione e nel controllo del credito”, “carenze nei controlli”, “violazioni in materia di trasparenza”, “omesse e inesatte segnalazioni agli organi di vigilanza”.

Ma è tutta invidia, infatti lui resta al suo posto finché Bankitalia impone al governo di commissariare Etruria. Il procuratore di Arezzo, Roberto Rossi, indaga per falso in bilancio e altri reati sugli ultimi Cda, dove sedeva papà Boschi, che però è uno dei pochi a non venire indagato.

20.1.2015. Il governo Renzi, a Borse chiuse per evitare speculazioni, annuncia un decreto per trasformare le banche popolari in Spa. Tra queste c’ è Etruria, che Bankitalia ha già dato per morta. Ma ora pare risorta e i risparmiatori, anziché fuggire a gambe levate, tornano a fidarsi. Nei giorni precedenti però qualcuno se l’ è cantata, infatti c’ è la corsa ad acquistare titoli di popolari, specie di Etruria.

La Boschi, sospettata di aver preso parte al Cdm in conflitto d’ interessi, dice che il verbale è un segreto di Stato, poi però lo viola e giura che non c’ era: sarebbe stato conflitto d’ interessi e poi era in Senato. Lì nessuno l’ ha vista, ma si sa come sono le sante: ubique e, volendo, invisibili.

10.9.2015. Il Cdm approva lo schema del decreto che recepisce la direttiva europea sulle risoluzioni bancarie (bail-in). Riguarda anche Etruria. La Boschi è angosciata: “Mi si nota di più se vado o se non vado? Ma dai, ce lo chiede l’ Europa, che problema c’ è”. E va, come ad altre due riunioni preparatorie (tanto il verbale è segreto, no?). Non sa, la Vispa Teresa, che il diavolo è in agguato: mentre lei invia un sms con le emoticon, una mano furtiva aggiunge all’ art. 35 sei paroline (“nonché dell’ azione del creditore sociale”) che modificano il testo unico bancario sugli istituti commissariati e impediscono ai creditori sociali di chiedere i danni agli ex manager. Incluso papà. Lei non s’ accorge di nulla, glielo fanno sotto il naso: sennò sai come si metterebbe a strillare, allergica com’ è ai conflitti d’ interessi.

5.10.2015. La Boschi invia al presidente del Senato il decreto con dentro il salva-papà infilato a sua insaputa.

31.10.2015. La nota giureconsulta (sta riformando la Costituzione) partecipa ad Arezzo al convegno “Legalità e sviluppo”. Sul palco c’ è un pm, tal Roberto Rossi, e lei si arrovella: “Mi pare di averlo già visto da qualche parte, ma dove? Ah, la memoria!”.

16.11.2015. Nuovo Cdm sul salva-banche. La Boschi non c’ è, né del resto potrebbe accorgersi del codicillo salva-papà. Mica può cogliere certe sottigliezze: è solo laureata in Legge.

22.11.2015. Il Cdm vara il decreto. La Boschi fa sapere che non c’ è (qui il segreto sul verbale non vale). All’ uscita alcuni colleghi l’ avvicinano per spiegarle tutto. Ma lei si tappa le orecchie: “Non voglio sapere né sentire, sarebbe conflitto d’ interessi!”.

Poi uno, sempre a tradimento, butta lì che i conti in banca e le case di papà sono salvi: i creditori sociali non possono più aggredirli, a meno che non lo faccia il commissario scelto da Bankitalia e nominato dal suo governo. Lei spalanca gli occhioni colmi di lacrime: “Davvero avete fatto questo per me? Grazie, ragazzi, che pensiero gentile, non dovevate! Anche a nome di papà. Però per Natale non voglio più nulla, eh? Meno male che mi sono astenuta, se no era conflitto d’ interessi.L’ ho scampata bella!”.

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16.12.2015. Il Fatto rivela che il pm Rossi è consulente della Presidenza del Consiglio dai tempi di Letta, confermato dal governo Renzi, e ogni tanto gironzola per Palazzo Chigi dove ha l’ ufficio anche la Boschi. Figurarsi lo stupore della ministra: “Ecco chi era il pm del convegno! Lo dicevo che quella faccia non mi era nuova! Brrr che paura, è quello che indaga sulla banca di papà! A saperlo prima, mi sarei astenuta pure dal convegno! Fortuna che non sono fisionomista, sennò era conflitto d’ interessi! Matteo, quel Rossi è troppo bravo: lo confermiamo anche per l’ anno prossimo?”

Toghe sporche ci ricorda che abbiamo un grosso problema nella magistratura

Il CSM è diventato, anziché organo di autogoverno e garante dell’autonomia della magistratura, una struttura da cui il magistrato si deve guardare… (con) le correnti trasformate in cinghia di trasmissione della lotta politica” (Giovanni Falcone, 20 maggio 1990)

Il decreto della perquisizione disposta dalla procura di Perugia nei confronti dell’attuale sostituto procuratore a piazzale Clodio racconta una vicenda meritevole di attenzione. Il pm della procura di Roma, Luca Palamara, quando rivestiva il ruolo di componente del Csm avrebbe ricevuto 40 mila euro dagli avvocati Giuseppe Calafiore e Piero Amara per favorire la nomina di Giancarlo Longo a procuratore di Gela, non andata in porto.

Noi restiamo garantisti con tutti, per davvero, ma è interessante sottolineare la difesa di Palamara: “Sulla mia persona si stanno abbattendo i veleni della Procura di Roma, ma ho la tempra forte e non mi faccio intimidire. Sto chiarendo punto per punto tutti i fatti che  mi vengono contestati perchè ribadisco che non ho ricevuto pagamenti, né regali, né  anelli e non ho fatto favori a nessuno”.

Al netto, delle vicende personali da chiarire nelle sedi opportune emergono 3 questioni interessanti:

  1. Nelle procure c’è una guerra per bande, che mette il cittadino alla mercé di procuratori e PM sostanzialmente motivati da ragioni completamente avulse dalla applicazione dei codici. Queste dinamiche si riflettono evidentemente sulle garanzie del cittadino.
  2. Il CSM che dovrebbe vigilare su queste faccende è a sua volta preda di correntismi. Se da un lato è ovunque riconosciuta e richiamata l’assoluta necessità dell’indipendenza dei giudici e dei PM da ogni interferenza esterna, non si nota la stessa attenzione nei confronti della cosiddetta “autonomia interna” del magistrato, quella cioè rispetto al proprio organismo associativo.
  3. C’è da chiedersi se gli strumenti previsti per sanzionare condotte di magistrati corrotti o che comunque abusano del loro siano adeguati, a partire dall’impianto del CSM.

Quali soluzioni?

A) Da queste parti denunciamo da tempo la necessità di una profonda riforma della giustizia (quindi necessariamente costituzionale). Più che di riforma del CSM dovremmo parlare di riforma dei CSM, perché la separazione delle carriere è un bene necessario.

B) A presiedere i due CSM dovrebbe essere, non solo virtualmente, il Capo dello Stato, la cui posizione super partes di raccordo tra i poteri dello Stato garantisca il necessario collegamento della magistratura con le istanze esterne. Il primo presidente della Corte di cassazione è membro di diritto del CSM giudicante, mentre il procuratore generale della Corte di cassazione è membro di diritto del CSM requirente. I componenti di entrambi i nuovi Consigli sono nominati per metà dal Parlamento in seduta comune, e per metà, rispettivamente, dagli appartenenti all’ordine dei giudici e dai pubblici ministeri. La presenza dei due membri di diritto (primo presidente della Corte di cassazione e procuratore generale) garantisce la prevalenza numerica della componente togata. Inoltre, la componente togata di ciascun Consiglio dovrebbe essere nominata, rispettivamente, dai giudici e dai magistrati del pubblico ministero previo sorteggio degli eleggibili. Questo meccanismo è il più idoneo a contrastare il fenomeno della “correntocrazia” e a rafforzare quindi l’autonomia interna dei magistrati. Percorribile l’ipotesi secondo la quale possano essere sorteggiati fra gli eleggibili solo soggetti di garantita esperienza: si pensi a un albo comprensivo dei magistrati già valutati tre volte.

C) La cognizione delle questioni disciplinari è devoluta a un’apposita sezione disciplinare, composta da cinque membri effettivi; il vicepresidente del Consiglio è il presidente della sezione, che è altresì formata da un componente eletto tra quelli designati dal parlamento e da quattro componenti eletti tra quelli togati. Il nostro disegno di legge costituzionale prevederebbe la creazione (dopo i due nuovi CSM) di una terza istituzione: la Corte di disciplina. Separando la funzione disciplinare da quella amministrativa, si escluderebbero rischiose interferenze, evitando che chi è chiamato a valutare, a vario titolo, le carriere dei magistrati (professionalità, conferimento di incarichi dirigenziali, incompatibilità non derivanti da illeciti disciplinari) ne possa giudicare anche i profili disciplinari. Superando, finalmente, anche quella “giustizia domestica” testimoniata a più riprese, logicamente ed eticamente inaccettabile.

Rif:https://www.immoderati.it/2019/05/31/toghe-sporche-ci-ricorda-che-abbiamo-un-problema-nella-magistratura/

“Toghe sporche”: il ministro Bonafede invia gli ispettori nelle procure (Luca Palamara)

Iniziativa nel pieno rispetto dell’autonomia della magistratura che ha aperto un’inchiesta nei primi giorni di maggio, attivando l’Ispettorato di via Arenula per svolgere “accertamenti, valutazioni e proposte”.

ROMA – La vicende che stanno investendo i pm Luca Palamara e Stefano Fava sono all’attenzione del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che, già nei primi giorni di maggio, ha investito l’Ispettorato di via Arenula del compito di svolgere “accertamenti, valutazioni e proposte“.

Il Guardasigilli come viene riferito, e’ molto preoccupato data la delicatezza della vicenda che coinvolgerebbe anche le nomine del Csm, tiene il massimo riserbo e si riserva di assumere ogni opportuna iniziativa quando il quadro sara’ piu’ chiaro, nel pieno rispetto dell’autonomia della magistratura che ha aperto un’inchiesta.

Oggi intanto Palamara verrà nuovamente ascoltato dai magistrati, il pm ex consigliere del Csm assistito dagli avvocati Benedetto e Mariano Marzocchi e Michele Di Lembo,  viene accusato di aver accettato gioielli e viaggi per pilotare le nomine dei magistrati a capo delle procure. In particolare avrebbe ricevuto 40 mila euro dagli avvocati Giuseppe Calafiore e Piero Amara per favorire la nomina di Giancarlo Longo a procuratore di Gela, non andata in porto.

Mai ricevuto pagamenti. Si stanno abbattendo su di me i veleni della Procura di Roma, – si difende Palamara – ma ho la tempra forte e non mi faccio intimidire. Sto chiarendo punto per tutto tutti i fatti che mi vengono contestati perchè ribadisco che non ho ricevuto pagamenti, nè regali, ne anelli,e non ho fatto favori a nessuno“.

Restano però le intercettazioni della Guardia di Finanza effettuante mediante un captatore (trojan) installato nel telefono di Palamara, che hanno consentito persino di ascoltare le conversazioni di Palamara con due parlamentari (ascoltati quindi casualmente) ed una registrazione con l’ex sottosegretario Luca Lotti (Pd). I parlamentari sono estranei all’indagine.

il procuratore aggiunto Paolo Ielo

Un altro dei soggetti chiave associati alle indagini sui rapporti tra Palamara e Spina è poi il pm romano Stefano Rocco Fava, a sua volta indagato per “favoreggiamento” e “rivelazione del segreto di ufficio in concorso”. Il pm calabrese, firmatario dell’esposto al Csm contro il procuratore Giuseppe Pignatone e l’aggiunto Paolo Ielo, è accusato di aver rivelato a Palamara notizie sulle indagini a suo carico e di averlo aiutato ad eluderle fornendo atti e documenti.

C’avrai la tua rivincita perché si vedrà che chi ti sta fottendo (…) forse sarà lui a doversi difendere a Perugia, per altre cose perché noi a Fava lo chiamiamo”, diceva al telefono Spinaall’amico Palamara, che gli rispondeva: “No adesso lo devi chiamare altrimenti mi metto a fare il matto“. Nei colloqui intercettati anche la necessità di far arrivare a capo della procura di Perugia un magistrato amico in grado di alleggerire la sua posizione e magari aprire un fascicolo contro l’aggiunto Paolo Ielo, che aveva trasmesso gli atti arrivati da Messina a Perugia per competenza.

Dal fascicolo d’ indagine della Procura di Perugia sul pm Palamara, affidato alla pm Gemma Milano e al Gico della Guardia di Finanza di Roma si evince che Palamara avrebbe acquisito informazioni anche attraverso il commercialista Andrea De Giorgio, consulente nominato anche all’interno della Procura della Repubblica di Roma. Secondo i pm, “la consegna di queste carte ‘contro’ i suoi colleghi da parte di Fava e parimenti le informazioni assunte dal De Giorgio” hanno “per Palamara, nella sua ottica, un valore al contempo difensivo e forse di ‘ritorsione“.  Adesso al vaglio degli inquirenti ci sono i file contenuti in uno dei computer dell’ex consigliere del Csm sequestrato a piazzale Clodio.

Rif:https://www.ilcorrieredelgiorno.it/toghe-sporche-il-ministro-bonafede-invia-gli-ispettori-nelle-procure-per-accertare-il-caos-in-corso/

Toghe sporche, la Procura: “A Palamara 40mila euro per favorire una nomina”

E’ quanto scritto nel decreto della perquisizione disposta dalla Procura di Perugia nei confronti dell’attuale sostituto procuratore a piazzale Clodio, che avrebbe ricevuto il denaro per favorire la nomina di Giancarlo Longo a procuratore di Gela. La replica del pm: “Veleni della procura su di me, mai preso soldi o regali e mai fatto favori”

Toghe sporche, la Procura: "A Palamara 40mila euro per favorire una nomina"

ROMA. Il pm della procura di Roma, Luca Palamara, quando rivestiva il ruolo di componente del Csm avrebbe ricevuto 40 mila euro dagli avvocati Giuseppe Calafiore e Piero Amara per favorire la nomina di Giancarlo Longo a procuratore di Gela, non andata in porto. E’ quanto emerge dal decreto della perquisizione disposta dalla Procura di Perugia nei confronti dell’attuale sostituto procuratore a piazzale Clodio.

Negli atti si afferma che Palamara “quale componente del Csm riceveva da Calafiore e Amara la somma pari ad euro 40 mila per compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio, ovvero agevolare e favorire il medesimo Longo (arrestato nel febbraio del 2018 nell’ambito dell’inchiesta su corruzione in atti giudiziari dalla Procura di Messina – ndr) nell’ambito della procedura di nomina a procuratore di Gela alla quale aveva preso parte Longo, ciò in violazione dei criteri di nomina e selezione”.
Rif: https://www.repubblica.it/cronaca/2019/05/30/news/toghe_sporche_a_palamara_40mila_euro_per_favorire_una_nomina-227584340/