Giorgia Meloni contro la magistratura: “Csm, gli italiani non meritano questo”

Usa parole forti, Giorgia Meloni, per commentare le ultime evoluzioni dell’inchiesta che ha terremotato il Csm e arrivata fino a Luca Lotti: “Sempre più desolante il quadro che emerge dall’indagine sul Csm tra scambi di poltrone e legami poco trasparenti con la politica. Dopo Tangentopoli, ora è il turno di Togopoli – sentenzia la leader di Fratelli d’Italia -. Gli italiani non meritano tutto questo ma una giustizia credibile e autorevole, nella quale siano premiati i magistrati che svolgono con serietà e dedizione il proprio lavoro, non quelli che fanno politica. Bisogna partire da una seria riforma del Csm, che restituisca a questo organo la dignità che merita. La nostra di Fratelli d’Italia è chiara: fuori la politica dalla magistratura, basta con le correnti politiche e i giochi di palazzo tra magistrati”, conclude la Meloni.

Rif:https://www.liberoquotidiano.it/news/politica/13473616/giorgia-meloni-csm-quadro-desolante-togopoli-italiani-non-meritano-questo.html

Tutti quei dubbi sui magistrati che hanno favorito la Sea Watch

Da due giorni a sedici miglia dall’isola di Lampedusa, la nave “pendola”, come si dice nel gergo marittimo, senza muoversi da quella posizione. In attesa di una svolta. Non è certo la prima volta che l’ong tedesca infrange tutte le leggi del mare anticipando le mosse della Guardia costiera di Tripoli e rifiutandosi di riportare i clandestini i Libia al solo scopo di ingaggiare un braccio di ferro con Matteo Salvini. Tanto che ora viene il dubbio sull’azione della magistratura italiana che, quando ha avuto la possibilità di fermare l’imbarcazione, on l’ha fatto. A sollevare queste accuse contro i pm italiani è Pietro Dubolino, presidente di sezione a riposo della Corte di Cassazione, che sulla Verità spiega chiaramente perché la nave della Sea Watch andava lasciata sotto sequestro.

Forte del nuovo decreto Sicurezza bis, che gli dà la possibilità di vietarne l’ingresso, Salvini ha sottolineato che la nave non approderà in un porto italiano. “Sicuramente non arrivano in Italia perché per fesso non mi prendono”, ha tuonato il vicepremier accusando la Sea Watch, così come tutte le altre ong che operano nel Mar Mediterraneo, di usare “gli esseri umani per loro indegni interessi. Non so se anche economici, ma sicuramente politici”. “La Sea Watch sta andando avanti e indietro dimostrando ancora una volta di operare al di fuori della legge”, ha incalzato il leader del Carroccio domandandosi come mai la procura non abbia confermato il sequestro. Lo stesso dubbio è stato sollevato dalle colonne della Verità da un magistrato che non si fa problemi a rivela che, anziché trovarsi in mare aperto, a poche miglia da Lampedusa, la Sea Watch 3 dovrebbe essere sotto sequestro per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Come spiega molto bene Dubolino, il braccio di ferro tra Salvini e l’ong tedesca è un déjà vu. Quando la procura di Agrigento ha deciso di dissequestrarla, era facilmente prevedibile che sarebbe subito tornata a “raccogliere davanti alle coste libiche altri ‘migranti’ per portarli in Italia” e sfidare politicamente il vicepremier leghista. Certo i pm hanno tenuto in piedi il procedimento penale, ma rimettendo in mare l’imbarcazione hanno di fatto riarmato gli ultrà dell’accoglienza che non vedevano l’ora di montare un nuovo caso mediatico. Non deve, quindi, stupire se il “salvataggio” di giovedì scorso sia avvenuto abbia seguito il solito schema: l’ong che interviene prima della Guardia costiera di Tripoli, nonostante quest’ultima avesse preso in carico il soccorso; il rifiuto netto di trasferire i migranti sia in Libia sia in Tunisia; il blitz verso le acque territoriali italiane per creare un nuovo scontro politico e portare il caso a Bruxelles.

Nel suo intervento pubblicato sulla Verità, Dubolino non mostra alcuno stupore per il consolidato modus operandi della Sea Watch. Al contrario solleva forti dubbi sull’operato della magistratura italiana che sembra aver “del tutto ignorato” certe precise disposizioni. In primo luogo l’arresto di chi è stato beccato a favorire l’immigrazione clandestina. È obbligatorio ma nel caso della Sea Watch è stato disatteso. “Non si comprende per quale ragione il comandante a carico del quale si riteneva fin da quel momento addebitabile il reato in questione sia stato denunciato a piede libero e non in stato di arresto, come la legge avrebbe imposto”, scrive il magistrato ricordando che tale reato prevede anche la confisca del mezzo di trasporto usato per commettere l’illecito. “In casi come questo – fa notare – è prassi corrente di tutti gli uffici giudiziari mantenere il vincolo sulle cose soggette a confisca obbligatoria, trasformando, sulla base di talune precise norme del codice di procedura penale, il sequestro probatorio in sequestro preventivo, da mantenere fino all’esito del procedimento penale”. la procura di Agrigento, al contrario, ha dissequestrato la Sea Watch 3 permettendole di tornare in mare. “O, all’atto in cui è stata disposto il dissequestro della nave, la procura era già giunta alla conclusione che, per quanto emerso dalle indagini, il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina fosse da ritenere insussistente, e allora, contestualmente al dissequestro, avrebbe dovuto chiedere l’archiviazione del procedimento – ipotizza Dubolino – oppure riteneva che il reato fosse rimasto comunque configurabile, e allora, essendo pendente il relativo procedimento penale, avrebbe dovuto chiedere la trasformazione del sequestro probatorio in sequestro preventivo a garanzia, nell’eventualità della condanna, della eseguibilità della confisca obbligatoria”.

Le ombre sulla magistratura sono dunque notevoli. “Se questo fosse un Paese serio – conclude Dubolino – qualcuno, nelle opportune sedi istituzionali, dovrebbe chiedere a chi di dovere le opportune spiegazioni”. Ma si sa è difficile (se non impossibile) che i magistrati paghino per degli errori commessi.

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Via d’Amelio: quei pm che dimenticarono di depositare i verbali

La decisione dei magistrati di Caltanissetta. La commissione antimafia siciliana ha evidenziato che quella scelta ha «determinato una grave deviazione processuale» soprattutto nella valutazione dell’attendibilità del pentito Scarantino

Per ora sarebbero due i magistrati finiti nel registro degli indagati con l’ipotesi di reato di concorso in calunnia aggravato dall’avere favorito Cosa nostra. Parliamo del nuovo colpo di scena relativa alla vecchia indagine sulla strage di Via D’Amelio, definita dal Borsellino Quater il «il più grande depistaggio della Storia».

Ma è un depistaggio che ha visto anche come protagonista l’irritualità dello svolgimento del processo, tant’è vero che lo scorso novembre la Procura di Caltanissetta, che ha istruito il processo del Borsellino Quater, aveva trasmesso una tranche dell’inchiesta ai colleghi messinesi perché accertassero se nella vicenda, ci fossero responsabilità di magistrati.

Così la Procura di Messina ha aperto in un primo tempo un fascicolo di atti relativi, una sorta di attività pre- investigativa sfociata adesso in una inchiesta per calunnia aggravata. Ora dovranno conoscere i contenuti delle registrazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino quando era nel programma protezione, dove aveva a disposizione un telefono fisso e poteva solo ricevere le chiamate.

Parliamo di un accertamento tecnico non ripetibile, avente ad oggetto il riversamento di 19 supporti magnetici contenenti registrazioni prodotte con strumentazione della Radio Trevisian, denominata RT2000, trasmessi alla procura di Messina, in originale, dalla procura di Caltanissetta.

Ma rimane ancora inevaso un interrogativo, proprio sulla conduzione dell’iter processuale che è costata la condanna di otto innocenti, sulla base delle dichiarazioni di Scarantino. Lo spartiacque, o meglio quello che avrebbe dovuto essere, è da ritrovare nella data del 13 gennaio del 1995, quando c’è stato il confronto tra Scarantino e i collaboratori di giustizia Totò Cancemi, Gioacchino La Barbera e Mario Santo Di Matteo.

Ed è proprio in quel confronto che emerse la totale mancanza di attendibilità di Scarantino. Ma è accaduto che il verbale del confronto è rimasto nel cassetto per diverso tempo. Alla data dei confronti, ovvero il 13 gennaio 1995, nessuno dei processi riguardante la strage di via D’Amelio era stato ancora definito. La sentenza del primo processo concluso, il Borsellino 1, viene pronunciata solo nel gennaio del 1996, a distanza di oltre un anno dall’avvenuta assunzione dei confronti.

Il deposito di quei verbali demolitori della figura di Scarantino, quanto al profilo e criminale quanto al contenuto delle dichiarazioni, avrebbe potuto quindi incidere sensibilmente sulle conclusioni di quel processo. Che invece, com’è noto, si concluse accettando l’intero impianto accusatorio basato sulla parola di Scarantino e condannando all’ergastolo.

Il verbale uscì fuori grazie alla tenacia dell’avvocato Rosalba Di Gregorio, che all’epoca difese alcuni imputati poi condannati ingiustamente per la strage. Lo racconta in audizione dinnanzi la commissione antimafia della Sicilia presieduta da Claudio Fava.

«Siamo all’udienza preliminare del bis, quindi siamo se non ricordo male nel 1996 – ha spiegato Di Gregorio – facciamo le copie degli atti, tra le copie degli atti spunta fuori una missiva strana, una lettera di trasmissione dal Procuratore aggiunto di Caltanissetta Paolo Giordano, al procuratore aggiunto Guido Lo Forte di Palermo dove gli dice: «Ti mando, per quanto di interesse, i confronti fra Scarantino- Cancemi, Scarantino- Santino Di Matteo, Scarantino – Gioacchino La Barbera».

Cerchiamo questi confronti ma non ci sono, cioè non sono stati depositati, quindi noi chiediamo al giudice dell’udienza preliminare di fare depositare i confronti. La risposta a verbale è “Non esistono”. Gli abbiamo detto: “Non è possibile che non esistono, se li avete trasmessi a Palermo, evidentemente esistono quindi non ci dite non esistono, dite non ve li vogliamo depositare», «Non esistono e se esistono non riguardano gli imputati di questo processo, quindi voi non li potete avere».

A quel punto l’avvocato ha fatto un’istanza al dott. Guido Lo Forte come indagine difensiva ed è andata a parlargli. «Mi ha detto – racconta sempre la Di Gregorio: «Lei è pazza – graziosamente, cordialmente – se pensa che io le do una cosa che Caltanissetta non le vuole dare». Io ho detto «No, no, ma io lo voglio messo per iscritto: non te la posso dare, fattela dare da Caltanissetta».

E così abbiamo fatto. Il dott. Lo Forte scrive nella mia istanza «Non te la do, te la fai dare da Caltanissetta», quindi io prendo la risposta e la porto a Caltanissetta a Paolo Giordano dicendo: «Siccome esistono e me li devi dare tu, ti dispiace che me li dai?» «Non se ne parla assolutamente, non ti interessano, non ti riguardano, non riguardano gli imputati, non riguardano questo processo». Alla fine, nel febbraio del 97 ( e cioè dopo più di un anno dalla richiesta rigettata in udienza preliminare), l’avvocato Di Gregorio chiese e ottenne il deposito del confronto tra i collaboratori di giustizia e Scarantino nel processo “Borsellino ter”.

La commissione antimafia della Sicilia, nella sua relazione, ha evidenziato che il mancato deposito di detti verbali nella segreteria del pubblico ministero ha «sicuramente determinato una grave deviazione processuale, perché ha impedito alla Corte di Assise di Caltanissetta una piena cognizione ed una corretta valutazione dell’inesistente affidabilità di Scarantino». Un iter processuale, quindi, che già nel 1995 avrebbe avuto un esito diverso, se solo si fosse portato a conoscenza di quel verbale, il perno principale che avrebbe fatto decadere tutte le accuse senza arrivare fino al Borsellino Quater.

Destituito dalla magistratura l’ex pm di Siracusa Maurizio Musco

Siracusa, Veleni in Procura: slitta al 23 febbraio il ricorso del Pm Musco contro la condanna in appello

Musco aveva un legame di amicizia consolidatosi nel tempo e arricchitosi di rapporti economici e imprenditoriali con Amara tanto “da divenire fatto noto nell’ambiente forense e giudiziario” e tale da far apparire il suo comportamento processuale “non scevro da condiscendenza”.

La Sezione disciplinare del Csm ha destituito dalla magistratura l’ex pm di Siracusa Maurizio Musco. Il Consiglio superiore della magistratura, durante l’udienza pubblica di lunedì scorso, ha deciso per la rimozione dell’ex Pm di Siracusa per aver tenuto comportamenti che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell’istituzione giudiziaria e per non aver osservato l’obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge.

Nel 2016 la Corte di Cassazione riconobbe “l’esistenza di uno strettissimo rapporto di amicizia con l’avvocato Amara”, sottolineando la gravità delle condotte e il danno “cagionato all’immagine della gestione equilibrata e imparziale della funzione giudiziaria del pubblico ministero”. Con queste motivazioni venne confermata la condanna per l’ex Procuratore Ugo Rossi e del Pm Maurizio Musco.

Bongiorno a Gaia Tortora: “Un giudice può uccidere e lei sa cosa significa”

Ospite del programma Omnibus, il ministro della Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno ha sottolineato l’importanza di una riforma della giustizia completa.

 quanto ha dichiarato il ministro Giulia Bongiorno, ministro della Pubblica amministrazione e corresponsabile della Lega alla Giustizia, ospite di Gaia Tortora nel programma di La7 Omnibus.

“Io non credo che un magistrato non possa avere una sua idea ma se questa sua idea diventa, poi, oggetto di una disputa con altri magistrati e poi da questa idea della giustizia invece si arriva a indicare quel procuratore per quella sede per interessi personali, questo non è più correntismo buono, questo è un correntismo che coltiva interessi personali. Un magistrato non può coltivare interessi personali”.

Per questo, l’esponente leghista sottolinea l’importanza di una riforma della giustizia completa. Una riforma attuata non solo per rendere più veloci i processi. “Il magistrato può togliere la libertà, far stare sotto processo per anni una persona che poi resta condannata a vita. E lei sa bene cosa significa”, dice la Bongiorno rivolgendosi direttamente alla conduttrice, figlia di Enzo Tortora, ricordano il calvario giudiziario subito dal padre. La giornalista, forse colta di sorpresa dall’affermazione, è rimasta spiazzata ed ha risposto con un “sì”.

Rif:http://www.ilgiornale.it/news/politica/bongiorno-correntismo-nella-magistratura-causa-patologia-cui-1711134.html

I due magistrati indagati tra politica e pentiti

Indagati per calunnia Carmelo Petralia

Via D’Amelio – Anna Palma e Carmelo Petralia coinvolti nell’inchiesta sul depistaggio di Scarantino

Uno ha costruito la sua carriera nei ruoli dell’accusa, l’altra è stata per oltre dieci anni fuori ruolo, impegnata nello staff dell’ex presidente del Senato Renato Schifani e poi nelle stanze di Via Arenula, come vicecapo Dipartimento per gli affari di Giustizia. Carmelo Petralia e Anna Palma, indagati dalla Procura di Messina per il depistaggio di via D’Amelio, sono i primi magistrati chiamati a rispondere della colossale mistificazione costruita a tavolino sulle parole del pentito farlocco, Vincenzo Scarantino.

Top secret il contenuto dell’accusa di calunnia aggravata ipotizzata nei loro confronti, ma si sospetta che un ruolo cruciale della nuova indagine potrebbero giocare le 19 bobine trasmesse da Caltanissetta con registrazioni telefoniche dell’epoca, pronte a essere riversate su supporti moderni per la valutazione.

Di certo c’è che Scarantino aveva i numeri di cellulare di almeno quattro magistrati quando, nell’estate del ’95, era detenuto ai domiciliari a San Bartolomeo al Mare (Imperia), nella casa dove sarebbe stato “indottrinato” dagli uomini del gruppo Falcone-Borsellino e dove era installato un telefono fisso. Lo ha rivelato lui stesso, nel processo in corso ai poliziotti Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, accusati di averlo aiutato a memorizzare i verbali taroccati. “Il numero della Palma – ha detto Scarantino – mi sembra che me l’aveva dato Bo; quello del procuratore di Caltanissetta Gianni Tinebra (morto nel 2017, ndr) me l’aveva dato lui stesso, quello di Petralia me l’aveva dato il poliziotto Vincenzo Ricciardi, e quello del pm Nino Di Matteo me l’aveva passato Tinebra”. Di Matteo, sentito nel quater, è l’unico ad aver riferito spontaneamente di aver ricevuto in quel periodo messaggi vocali da Scarantino sul proprio cellulare, precisando però di non avergli mai risposto perché impegnato in un’udienza.

Diventata nel 2016 avvocato generale della Repubblica a Palermo (in quell’occasione il suo sponsor fu l’avvocato Paola Balducci, già deputata di Sel e compagna dell’ex ad delle Ferrovie dello Stato lo scomparso Lorenzo Necci), la Palma ha attraversato numerose polemiche per la sua familiarità con la politica (è sposata con Elio Cardinale, sottosegretario alla Salute nel governo Monti), la sua frequentazione di aggregazioni paramassoniche (nel ’79 fu nominata dama del Santo Sepolcro, lo stesso Ordine al quale apparteneva lo 007 Bruno Contrada, in cui rimase fino al ’93) e la sua amicizia con Totò Cuffaro, il governatore siciliano condannato per mafia. Fu Cuffaro a designare il fratello della Palma, già magistrato della Corte dei conti, “vicecommissario regionale per l’emergenza idrica in Sicilia”, come scrisse l’informatico Gioacchino Genchi nel libro autobiografico firmato con il giornalista Edoardo Montolli.

Sentita dalla Commissione regionale antimafia su via D’Amelio, Palma non ha saputo spiegare perché sul sopralluogo eseguito da Scarantino nella carrozzeria di via Messina Marine, in cui furono rubate le targhe poi montate sull’autobomba, non venne redatto alcun verbale: “Non mi sono posta assolutamente il problema – ha risposto – devo dire forse sarò stata ignorante”.

Già nella Dda catanese nel ’92, Petralia arriva a Caltanissetta a rafforzare il pool di magistrati all’indomani di via D’Amelio e negli anni successivi approda alla Procura nazionale antimafia, per poi guidare la Procura di Ragusa. Il suo ruolo nelle indagini su via D’Amelio è segnalato dall’Antimafia regionale nell’episodio di San Bartolomeo a Mare, la prima ritrattazione di Scarantino, bloccata proprio dall’intervento del pm, che in tempo reale, alla Questura di Genova, verbalizzò la ritrattazione della ritrattazione.

MAGISTRATURA, LA RIFORMA PIÙ IMPORTANTE DEVE PARTIRE DA DENTRO

Conciliaboli notturni in alberghi romani, in cui membri del Consiglio superiore della magistratura titolati a occuparsi di nomine di magistrati in ruoli apicali avrebbero parlato di queste nomine con persone non titolate a occuparsene, ma interessate (politici ed ex consiglieri del Csm, alcuni dei quali indagati). Emergono dall’indagine perugina che sta facendo tremare il Csm. A quanto se ne sa non sarebbero incontri penalmente rilevanti, ma fanno ugualmente strame del motto simbolo dell’indipendenza della magistratura ordinaria: sine spe ac metu, senza speranza e senza timore.

Perché proprio di questo, stando a quanto si evince dagli atti di incolpazione che hanno fatto scattare l’avvio dei procedimenti disciplinari, là dentro si parlava: di mettere «paura» a qualcuno – tramite dossier – per «togliere di mezzo» (ma là lo si diceva con un “francesismo”) dalla corsa a un posto un nome sgradito; di dirigere voti per scongiurare alcune nomine in sedi in cui persone presenti agli incontri stanno sotto indagine. A determinare gli spostamenti, a quel che si comprenderebbe leggendo le parole volate, criteri funzionali a interessi personali, e dunque alle speranze, di alcuni.

Fossero anche state soltanto chiacchiere, ora che sono visibili a occhio nudo, nessuno può più fare finta di niente. Perché ci diciamo da quando esiste la Costituzione che l’indipendenza della magistratura non basta, occorre salvarne anche l’apparenza. E con ogni evidenza in questo suk l’apparenza è andata a rotoli. Tra l’altro esiste una possibilità che non siano state solo parole che si porta il vento, perché almeno in Commissione alla fine i voti per la Procura di Roma (prima che lo scandalo congelasse tutto) sono andati proprio nella direzione che sarebbe stata auspicata in quei consessi, con parole molto dirette, da un deputato indagato proprio a Roma: uno come minimo fuori posto e come minimo in conflitto di interessi. Che siano andati in quella direzione per caso oppure no, l’ombra del sospetto rimane.

Occorre un sussulto di dignità e di responsabilità da parte delle istituzioni tutte, magistratura in primis, perché si è andati oltre il “così fan tutti” di cui tanti hanno parlato nei giorni scorsi. Un cittadino può forse afferrare – pur senza apprezzarla – quale fosse la logica delle appartenenze, di cui ci si lamentava da tempo, che faceva intendere che in Consiglio superiore potessero entrare, tra i componenti di nomina parlamentare, membri scelti più per l’appartenenza partitica che per il curriculum. E che le nomine degli uffici giudiziari potessero contemplare, tra i criteri ufficiosi, anche la spartizione in base all’appartenenza alle correnti. Una lottizzazione deprecabile in entrambi i casi, ma di cui si capisce il significato, benché in base ad argomenti non dei più nobili e neanche giustificabili.

Spiegare invece a un cittadino quale sia la logica secondo cui esponenti della corrente considerata più a destra nell’Associazione nazionale magistrati, trovassero una convergenza sulle nomine con esponenti politici, pure indagati, di un partito di sinistra, è parecchio arduo: come minimo ne ricaverà l’impressione che qualsiasi funzione, dalla rappresentanza politica, al ruolo consiliare, alla funzione magistratuale possa soccombere davanti agli appetiti privati. 

Nessuno ne esce bene, non il Csm, non la politica, non la magistratura, quest’ultima meno di tutti perché la sua indipendenza è il bene di tutti e perché l’arbitro sulle regole ha doveri maggiori. È ad essa dunque che si deve chiedere un sussulto di dignità, di orgoglio, di senso delle istituzioni che si traducano in un chiaro e profondissimo sforzo autoriformatore in direzione della trasparenza, della prova dell’indipendenza, per allontanare anche solo il minimo sospetto che sul dovere prevalga qualsivoglia interesse di bottega, personale o di corrente.

È un debito morale e civile nei confronti della cittadinanza perché l’indipendenza della magistratura, come ci hanno ripetuto a ragione, non è un privilegio suo ma un diritto nostro, la nostra garanzia di una legge uguale per il potente e per l’ultimo di noi. In questo clima da periferia dell’impero c’è il pericolo, concreto, che – nel discredito generale – se questo intervento riformatore non arriva con urgenza da dentro, qualcun altro vi provveda da fuori, magari cogliendo l’occasione per regolare conti mai del tutto nascosti, per mettere in discussione proprio l’istituto dell’indipendenza come disegnato dalla Costituzione. Sarebbe una toppa peggiore del buco nero che le carte di Perugia scoperchiano, perché sortirebbe l’effetto di istituzionalizzare il buco.

Rif: https://www.famigliacristiana.it/articolo/magistratura-la-riforma-piu-importante-deve-partire-da-dentro.aspx

Csm, Robledo: “Magistratura si faccia esame coscienza. Ma non ne ha la forza, per anni ha tollerato questo”

Caos procure e Csm? Sì, siamo assolutamente di fronte a una situazione grave e pericolosa per le istituzioni. Non c’è dubbio”. Così, ai microfoni di “24 Mattino”, su Radio24, l’ex procuratore aggiunto di Milano, Alfredo Robledo, commenta lo scandalo sul Csm e le ultime intercettazioni, registrate da un trojan nel cellulare dell’ex presidente di Anm, Luca Palamara, indagato a Perugia per corruzione, e riguardanti le conversazioni tra lo stesso Palamara, alcuni consiglieri del Csm (togati del Csm autosospesi Antonio Lepre, Corrado Cartoni e Paolo Criscuoli e i dimissionari Gianluigi Morlini e Luigi Spina) , il deputato Pd Cosimo Ferri e l’ex ministro Luca Lottisulla nomina del successore dell’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Dalle intercettazioni è emerso che uno dei candidati, il procuratore capo di Firenze Giuseppe Creazzo, è stato escluso, perché indagava sui genitori di Matteo Renzi.

Rif:https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/06/13/csm-robledo-magistratura-si-faccia-esame-coscienza-ma-non-ne-ha-la-forza-per-anni-ha-tollerato-questo/5253431/

«Ermini si deve svegliare». Lotti e i dossier sulle toghe: dobbiamo fare la guerra

Palamara e le riunioni in hotel per pilotare le nomine delle Procure. Le trame contro il vicepresidente: «Gli va dato un messaggio forte…»

«Ermini si deve svegliare». Lotti e i dossier sulle toghe: dobbiamo fare la guerra

ROMA — Per arrivare a mettere i propri candidati al vertice delle Procure a cui erano interessati, discutevano su come aggirare le resistenze del vice-presidente del Consiglio superiore della magistratura David Ermini, s’informavano sui «dossieraggi» contro i potenziali avversari, organizzavano manovre per colpire i magistrati dei fronti opposti. Le intercettazioni dei colloqui tra Luca Palamara e i suoi amici, magistrati e politici, svelano le trame per le nomine. Come quelle pianificate durante l’incontro in un albergo romano nella notte tra l’8 e il 9 maggio scorsi. Oltre a Palamara c’erano i deputati del Pd Cosimo Ferri e Luca Lotti, e cinque componenti del Csm. «Un riunione perfettamente programmata», accusa il procuratore generale della Cassazione: tutti sapevano chi ci sarebbe stato e di che cosa avrebbero parlato, con l’obiettivo di «influenzare in maniera occulta l’attività istituzionale dell’organo di autogoverno», alla presenza di soggetti esterni al Csm di cui «è stato accettato e recepito il contributo consultivo, organizzativo e decisorio» sulla nomina del nuovo procuratore di Roma. 

Problemi con Ermini

A quell’incontro Luca Lotti arriva a mezzanotte e un quarto, mentre gli altri stanno facendo la conta dei voti che avrebbe potuto raccogliere il loro candidato per la Capitale, Marcello Viola. Secondo i calcoli di Gianluigi Morlini che in quel momento presiede la commissione incarichi direttivi, sarebbero arrivati a 13 su 26 componenti: un testa a testa nel quale l’eventuale preferenza espressa dal vicepresidente David Ermini sarebbe stata determinante. Ma di lui, ex collega di Lotti in Parlamento, i consiglieri non si fidano. Anzi, si lamentano proprio con l’ex ministro renziano. «Anche al disciplinare ho problemi con Ermini», dice Corrado Cartoni, componente della Sezione chiamata a giudicare i giudici. 

Lotti: «Eh, ragazzi, vanno affrontate queste cose».

Cartoni: «Io ci ho litigato con Ermini… Luca… digli qualcosa, si deve sveglià» (…)

Lotti: «Corrà, te non c’eri all’inzio ma Ermini non è che… (…) però qualche messaggio gli va dato forte».

Cartoni, su invito di Ferri, riassume un episodio avvenuto quel giorno, su una questione da definire nella Disciplinare, e Lotti commenta: «Questo non va bene, però».

Palamara: «Non va bene no».

Lotti: «Mica me l’avevate detto questo» 

Il «messaggio» evocato da Lotti, però, se pure è stato inviato non ha colto nel segno, giacché sulla Procura di Roma Ermini chiederà l’audizione dei candidati (respinta), attirandosi ulteriori ire da parte di chi aveva interesse ad accelerare la nomina. 

Dossier su Creazzo

Poco prima della conta dei voti sulla Procura romana e dell’arrivo di Lotti, Morlini aveva spiegato come i voti della sua corrente, Unità per la costituzione, dall’altro candidato — il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo — si sarebbero spostati su Viola: «Ci sono in commissione quattro intenzioni di voto a favore di Viola, una a favore di Lo Voi fatta da Suriano (Area, ndr), una a favore di Creazzo fatta da me». È esattamente ciò che accadrà in commissione il 23 maggio. Ma Morlini annuncia le mosse future, in vista del plenum: «A questo punto io… si dice riflettiamoci un attimo perché sarebbe opportuno non avere un frazionamento a tre, quindi si dispone un rinvio di un giorno, due giorni, fino a tre-quattro giorni per arrivare a lunedì successivo, noi contattiamo Creazzo e gli diciamo… Peppe guarda che qui noi ti possiamo votare, ci sono cinque voti nostri (di Unicost, ndr) e magari un laico, ma tu qua perdi, che si fa?».

Il piano prevedeva il ritiro di Creazzo, per concentrare i voti su Viola. Che a conti fatti diventerà il candidato di Lotti: «Si vira su Viola, sì ragazzi».

Ma se Creazzo non avesse fatto un passo indietro, si poteva contare su un’indagine aperta a Genova dopo un esposto che mirava a colpire il procuratore di Firenze. Ne parla Palamara, intorno a mezzanotte e mezza: «Ha raccolto tutte queste cose in un dossier, tutte le cose che non andavano su questa inchiesta e su Creazzo… e ha fatto l’esposto quindi non è proprio … non è una cazzata ,questo voglio dire…». 

Una «strategia di danneggiamento sulla quale più tardi interverrà anche Lotti: «Per me è importante capì che succede perché se è seria ovviamente lo… cioè non si parla di Roma… si parla che se è serio va via da Firenze, se non è serio non va via da Firenze, a me guarda… nessuno cerca… nulla… però bisogna fa almeno guerra…». 

Denunce su Roma

Anche sull’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e l’aggiunto Paolo Ielo erano in corso «strategie di discredito», attraverso la divulgazione di denunce come quella preparata dal pm Stefano Fava. A parlarne sono ancora Palamara e Lotti. 

Palamara: «Senti Fava… l’obiettivo è… gli fai sentì… loro devono sentì…»

Lotti: «Dopo che si è fatto gli aggiunti…».

Palamara: «Andiamo da Fava… (…) dopodiché fa usci tutto quello che dico… è finita… là è finita»

Lotti: «E fai uscire anche un po’ i fratelli… Sentilo Fava che dice… i fratelli, le cose… non sarà così pazzo».

Palamara: «Non te preoccupà, se te dico fidate, fidate… Lui vuole fà la denuncia penale, tu forse non hai capito, li vuole denunciare a Perugia… lascia perde che so’ cose però tu intanto gli rompi il cazzo, punto. (…) Io mi acquieterò quando, come ti ho detto una volta, Pignatone mi chiamerà e mi dirà cosa è successo… perché lì la vicenda Consip la so io… e gli ho protetto il culo su tutto… alla fine cioè cosa è stato? Eh no ma adesso mi fai, mi tieni sotto ricatto, me lo devi dì…». 

Il ricatto a Borrelli

Secondo l’accusa, quando parla del futuro procuratore di Perugia con un collega, Palamara «prefigura la possibilità di svolgere un’attività diretta ad evidenziare i meriti dell’aspirante dottor Borrelli (attuale procuratore aggiunto di Napoli ndr) condizionatamente alla sua disponibilità a ottenere un’atteggiamento di sfavore nei confronti di Ielo in vista dell’iscrizione di un eventuale processo penale». Un esito a cui Palamara sembrava tenere molto: «Io stasera a Luigi glielo dico: o esce fuori da sta storia… o diamo la botta… Non si può andare più a cincischiare». 

Rif:https://roma.corriere.it/notizie/cronaca/19_giugno_13/ermini-si-deve-svegliarelotti-dossier-toghedobbiamo-fare-guerra-dc0b9898-8e1d-11e9-bd73-fad8388dc5ff.shtml

Alessandro Sallusti a Piazzapulita: “Pensavano che i magistrati fossero dei, ma il loro tasso di porcherie..”

“Il tasso di porcherie che ci sono all’interno della magistratura non è diverso da quello che c’è nella politica e in altre categorie”, tuona Alessandro Sallusti ospite di Corrado Formigli a Piazzapulita su La7, “mentre fino ad oggi ci hanno fatto credere che fossero degli dei, una casta di eletti unti dal Signore, che non potevano sbagliare anche loro”. Questa inchiesta, conclude il direttore de Il Giornale, “dimostra innanzitutto che la magistratura che è fatta da uomini e quindi ha lo stesso tasso di corruzione e tentazione”.

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