Il vero scandalo del Csm: autosospesi e strapagati

Altro che linea dura. I quattro membri del Consiglio superiore della magistratura inciampati nelle intercettazioni del «caso Palamara», scoperti mentre partecipavano alle cene con Luca Lotti in cui si spartivano le poltrone degli uffici giudiziari, sono in questo momento «autosospesi» dal Csm. 

Cosa significhi in concreto è presto detto: sono pagati senza lavorare. Non partecipano ai lavori delle commissioni, non si presentano al plenum. Se ne stanno a casa loro. E a fine mese prendono lo stipendio.

Antonio Lepre, Corrado Cantoni, Paolo Criscuoli (di Magistratura Indipendente) e Gianluigi Morlini (di Unicost) hanno respinto bruscamente l’invito esplicito dell’Associazione nazionale magistrati e quello – altrettanto netto, anche se implicito – del Quirinale a dimettersi dal Csm per salvaguardare l’immagine dell’istituzione. Lo hanno fatto perché le dimissioni suonerebbero come una ammissione di colpevolezza, e i quattro rivendicano la propria innocenza, sostenendo che Luca Lotti – il plenipotenziario di Renzi sul fronte delle nomine – si materializzò a fine cena senza essere stato annunciato. «Siamo vittime di una caccia alle streghe», dice Criscuoli. Posizione legittima. Ma non è irrilevante il fatto che evitando di dimettersi i consiglieri continuano a prendere lo stipendio. Certo, prenderebbero lo stipendio ugualmente se si dimettessero, come ha fato il loro collega Luigi Spina, e tornassero negli uffici di provenienza. Ma in quel caso dovrebbero lavorare.

La «autosospensione» ha, economicamente parlando, una sola conseguenza: la perdita dei gettoni di presenza, che sono collegati alla partecipazione dei lavori e delle commissioni. Venalità a parte, la scelta dei quattro consiglieri solleva un tema rilevante: la sostanziale inamovibilità dei membri del Csm. Se l’organismo di autogoverno dei giudici si è trasformato nel corso degli anni in un potere irresponsabile, sottratto a qualunque controllo, è anche per questo. E dovrà farci i conti anche il presidente Mattarella, i cui propositi di «tolleranza zero» rischiano di andare a sbattere contro le garanzie di cui godono i membri del Consiglio.

Nella giornata di giovedì, davanti alle richieste di dimissioni che venivano dai magistrati di mezza Italia, è dovuta intervenire Alessandra Dal Moro, consigliere Csm di Magistratura democratica, con una mail indirizzata alla base. È un documento interessante, perché fa capire che o i diretti interessati scelgono di togliere il disturbo dimettendosi, o mandarli a casa è impossibile.

La Dal Moro spiega che la «autosospensione» è solo un termine giornalistico, e che per i quattro si tratta di «volontaria astensione dei consiglieri coinvolti dalle attività consiliari». Una effettiva sospensione dalla carica o una decadenza definitiva sarebbero possibili solo in cinque casi. Assai ardui (e in alcuni casi del tutto impossibili) da verificarsi.

Primo caso: il magistrato sottoposto a procedimento penale per un reato non colposo può essere sottoposto a «sospensione facoltativa», ma serve un voto del Plenum a scrutinio segreto e con una maggioranza dei due terzi: improbabile. Secondo caso, la sospensione automatica in caso di procedimento disciplinare con sospensione dalle funzioni o dallo stipendio: ipotesi impossibile, perché i membri del Csm non sono considerati in servizio attivo e quindi non possono essere sottoposti a procedimento disciplinare. Terzo caso: la decadenza in caso di condanna disciplinare a una sanzione più grave dell’ammonimento: vedi sopra. Quarto caso, la decadenza in caso di condanna penale irrevocabile: che, visti i tempi della giustizia, arriva solo quando il membro ha già finito il suo mandato.

Resta il quinto caso: sospensione se il consigliere finisce in galera. Vabbé, almeno in quel caso si può cacciarlo. Provvisoriamente.

Rif:http://www.ilgiornale.it/news/politica/vero-scandalo-csm-autosospesi-e-strapagati-1707741.html

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