Corruzione, sentenze pilotate al Consiglio di Stato: giudizio immediato per tre giudici e un deputato dell’Ars

Il 18 giugno prossimo è stato fissato il processo per il giudice (sospeso) Nicola Russo, per l’ex presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Sicilia Raffaele Maria De Lipsis, per l’ex giudice della Corte dei Conti, Luigi Pietro Maria Caruso e per il deputato dell’assemblea regionale siciliana Giuseppe Gennuso

La Procura di Roma ha chiesto ed ottenuto il giudizio immediato per quattro indagati nell’inchiesta sulle ipotizzate sentenze pilotate al Consiglio di Stato. Il 18 giugno prossimo è stato fissato il processo per il giudice (sospeso) Nicola Russo, per l’ex presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Sicilia Raffaele Maria De Lipsis, per l’ex giudice della Corte dei Conti, Luigi Pietro Maria Caruso e per il deputato dell’assemblea regionale siciliana Giuseppe Gennuso. Sono accusati di corruzione in atti giudiziari. I quattro erano stati arrestati il 7 febbraio scorso. L’ipotesi della procura, accolta dal gip che aveva disposto i domiciliati, è l’esistenza di un sistema corruttivo in cui giudici amministrativi si sarebbero erano messi al servizio di privati in cambio di mazzette: circa 150mila euro.

Soldi dati e promessi per “comprare” sentenze e ottenere, in alcuni casi, cifre a sei zeri o elezioni ad un consiglio regionale. In totale sono cinque gli episodi contestati dai magistrati di piazzale Clodio, coordinati dal procuratore aggiunto Paolo Ielo. L’indagine si basa sulle dichiarazioni fatte negli ultimi mesi dagli avvocati Pietro Amara e Giuseppe Calafiore, arrestati nel febbraio del 2018 scorso nell’ambito di uno dei filoni dell’inchiesta. Dichiarazioni riscontrate dai magistrati e inquirenti attraverso intercettazioni e analisi dei flussi finanziari. Nella loro funzione di giudici – scriveva il gip nell’ordinanza di custodia cautelare – “hanno posto a disposizione dei privati la loro funzione, contravvenendo ai doveri di imparzialità e terzietà e ricevendo in cambio un’utilità economica e ciò, indipendentemente dall’esito favorevole o sfavorevole delle decisioni assunte”.

Corruzione, sentenze pilotate al Consiglio di Stato: giudizio immediato per tre giudici e un deputato dell’Ars

Tre episodi sono contestati al giudice del Consiglio di Stato Russo e due all’ex presidente del Consiglio di giustizia amministrativa della Sicilia, De Lipsis. In base a quanto raccontato da Amara, Russo avrebbe ottenuto da lui circa 80mila euro (e altri 60mila promessi), per aggiustare sentenze di tre procedimenti. Per quanto riguarda De Lipsis avrebbe incassato tangenti per 80mila euro per intervenire su alcune sentenze. Tra queste anche quella relativa ad un contenzioso che la società Open Land, rappresentata da Amara, aveva con il comune di Siracusa.

Il giudice, attraverso la nomina di consulenti graditi ad Amara e Calafiore, avrebbe fatto ottenere alla società un risarcimento dal comune siciliano di 24 milioni euro. Di questi ne verranno elargiti due prima dell’esplosione del caso giudiziario. Per questa
operazione De Lipsis avrebbe ottenuto 50mila euro di tangenti. Infine l’ex presidente del Cga sarebbe intervenuto, in qualità di presidente del collegio, nella vicenda relativa al ricorso presentato da Giuseppe Gennuso dopo la sua mancata elezioni alle amministrative del 2012. Il tribunale amministrativo annullò quel risultato elettorale di Siracusa favorendo Gennuso che venne rieletto alla nuova tornata. In cambio il giudice ottenne 30 mila euro. Denaro che Gennuso avrebbe consegnato, secondo gli inquirenti, attraverso l’ex giudice della Corte di Conti, Caruso.

Rhttps://www.ilfattoquotidiano.it/2019/05/02/corruzione-sentenze-pilotate-al-consiglio-di-stato-giudizio-immediato-per-tre-giudici-e-un-deputato-dellars/5149312/if:

I giudici si allungano le ferie

Il Csm con una delibera allunga le ferie dei giudici: niente udienze dal 15 luglio al 7 settmbre.

Di fatto, in questo modo, viene esteso il periodo di riposo che era stato fissato dal Ministero di Grazia e Giustizia dal 26 luglio al 3 settembre. La delibera del Consiglio Superiore della Magistratura va a fissare, come ricorda Italia Oggi, un periodo “cuscinetto” in cui nei tribunali non ci saranno udienze ordinarie. Resta la deroga per gli “affari urgenti e indifferibili”. La delibera del Csm parla chiaro e non lascia spazio a interpretazioni: “Dovrà essere adottata in tempi brevi una compiuta rivisitazione della tematica della fruizione delle ferie, attraverso la revisione della normativa”. Di fatto la gabola per allungare le ferie è presto spiegata.

Al periodo fissato dal Ministero che va dal 26 luglio al 2 settembre vanno aggiunti in testa dieci giorni “cuscinetto” per la definizione degli affari e degli atti in corso e cinque giorni in coda per predisporre l’attività ordinaria. Questi cambiamenti avranno inevitabilmente una conseguenza diretta sul lavoro dei magistrati. Ed è lo stesso Csm a sottolinearlo nella delibera: “I dirigenti degli uffici giudiziari dovranno organizzare il lavoro dei magistrati in modo da assicurare soltanto la trattazione degli affari urgenti e indifferibili, senza la fissazione di udienze ordinarie (come per il periodo feriale) durante il lasso di tempo che va dal 15 al 25 luglio e dal 3 al 7 settembre”.Insomma i magistrati avranno più tempo per godersi il mare e il sole delle vacanze.

Rif: http://www.ilgiornale.it/news/politica/i-giudici-si-allungano-ferie-1702749.html

È caduta la fiducia nei giudici. Mattarella e il Csm facciano in modo che la piaga purulenta venga isolata

e anche i giudici sono corrotti, che speranza rimane a questa sventurata Italia? È la domanda che mi sento rivolgere spesso in questi giorni. E non mi stupisce: sono giorni segnati dalle cronache sconvolgenti che vedono una parte del Consiglio superiore della magistratura, il massimo organo di autogoverno del potere giudiziario, coinvolto in manovre di bassa lega, con accuse che vanno dalla collusione col potere politico per truccare l’esito delle nomine nei posti chiave della magistratura, fino al presunto pagamento di mazzette o regalie varie, non escluso un gioiello per l’amica di uno dei personaggi coinvolti.

Dunque, quale speranza c’è per questo sventurato Paese? Se è vero che la speranza è l’ultima a morire, è anche vero che sembra avere già un piede nella fossa. I fatti, ampiamente riportati da questo giornale, sono noti. Membri di quel Csm che governa o dovrebbe governare il potere giudiziario in totale indipendenza dal potere politico come vuole la Costituzione, appaiono implicati in illeciti mercati, in combutta con soggetti della politica. Stiamo parlando di almeno cinque membri del Csm su un totale di diciotto, togati compresi.

Stando alle registrazioni audio degli inquirenti, il giudice Luca Palamara, ex consigliere del Csm ed ex presidente dell’Anm, e cinque consiglieri in carica del Csm, brigavano con due uomini politici per scegliere i nomi su cui convogliare i voti per la nomina a Procuratore di Roma e di Perugia. I politici in questione, entrambi del Pd, sono Cosimo Ferri(magistrato che è stato sottosegretario alla Giustizia nei governi Letta, Renzi e Gentiloni, prima di diventare deputato) e Luca Lotti, quest’ultimo all’epoca ministro dello sport del governo Renzi ed eminenza grigia del “giglio magico” renziano.

I congiurati puntavano non solo ad ottenere in proprio vantaggi di posizione e inchieste mirate, da usare come un’arma: avrebbero puntato – secondo l’accusa – anche a “farla pagare” all’ex Procuratore di Roma, Pignatone, che aveva inquisito Lotti per la vicenda Consip. Lotti, scrive il Corriere della sera, “appare determinato a vendicarsi di Pignatone” e vuole scegliere il prossimo Procuratore di Roma “per contare su una pubblica accusa a lui più favorevole”. Lo stesso Lotti vuole escludere dalle nomine il magistrato Creazzo “che ha fatto arrestare i genitori di Renzi”.

giustizia

Sono accuse tremende, che disegnano uno Stato in cui i due poteri separati e distinti, quello giudiziario e quello legislativo, in teoria l’uno cane da guardia dell’altro, si colludono con uno stesso intento illegittimo e sostanzialmente sovversivo. Non è un caso che qualcuno abbia evocato la P2. E non è un caso che il vicepresidente del Csm Davide Ermini, in un drammatico discorso, abbia detto: “O sapremo riscattare coi fatti il discredito che si è abbattuto su di noi o saremo perduti”.

Personalmente so con certezza che molti giudici fanno onore alla toga che indossano. Ma i fatti di questi giorni dimostrano con altrettanta certezza che una parte dell’organismo è infetta. L’unica speranza è che l’organo di autogoverno e il presidente Mattarella, che presiede il Csm, facciano in modo che la piaga purulenta venga isolata e ripulita, prima che la cancrena dilaghi ulteriormente. Noi aspettiamo.

Rif:http://www.lanotiziagiornale.it/e-a-rischio-la-fiducia-nei-giudici-mattarella-e-il-csm-facciano-in-modo-che-la-piaga-purulenta-venga-isolata/

Inchiesta sui giudici corrotti, il PM: «Rimangano agli arresti per altri 3 mesi»

La procura di Lecce ha chiesto che vengano prorogate di tre mesi le misure cautelari nei confronti dei magistrati Michele Nardi e Antonio Savasta e dell’ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro, coinvolti nell’inchiesta su presunti procedimenti giudiziari pilotati in cambio di favori.

La decisione spetterà al giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Lecce.

Intanto prosegue l’incidente probatorio che da settimane si sta svolgendo nel Palazzo di Giustizia di Lecce per cristallizzare le dichiarazioni degli indagati fornite durante gli interrogatori.

“I giudici provano sulla loro pelle processi mediatici e intercettazioni”

È a un dibattito a Pordenone, ma Carlo Nordio non si sottrae al tema del giorno: «Siamo alla nemesi storica».

Si aspettava questo sconquasso dentro le solenni stanze del Csm?

«È vent’anni che scrivo queste cose e lo dico senza alcun compiacimento».

Politica e giustizia vanno a braccetto?

«Adesso tutti si scandalizzano per le riunioni carbonare fra i consiglieri e i politici, ma da sempre la politica la fa da padrona a Palazzo dei Marescialli e nell’Associazione nazionale magistrati. Basta riflettere sulle correnti che sono costruite a imitazione dei partiti, con una destra, un centro e una sinistra».

Sì, ma la legge prevede che un po’ di politica ci possa e ci debba essere attraverso i consiglieri laici.

«Certo, ma i laici, che sono una minoranza, quando arrivano a Palazzo dei Marescialli dovrebbero interrompere ogni rapporto con i partiti. Solo che non va così».

Le nomine sono davvero pilotate?

«Certo. Se non hai la sponsorizzazione di questa o quella corrente non puoi aspirare a guidare uffici importanti. Le correnti fanno e disfano accordi, le correnti barattano i posti».

A danno del talento e delle capacita’ delle singole toghe?

«Non è detto. A volte vengono scelti personaggi di primo piano, ma il criterio è quasi sempre quello della lottizzazione. E la riprova di questa consuetudine è la valanga di ricorsi che intasano Tar e Consiglio di Stato. E che spesso si concludono con la vittoria dei ricorrenti».

L’inchiesta di Perugia che cosa aggiunge a questo quadro?

«I fatti ipotizzati, se confermati, sarebbero gravissimi. Per questo sarebbe stato bene chiudere le indagini prima di divulgare episodi di cui non siamo ancora certi, ma il mondo va cosi. Per i comuni mortali e ora anche per le toghe. Conosciamo il contenuto delle indagini a pezzi e bocconi direttamente dai giornali, con il rischio di errori ed errate valutazioni».

Siamo alla nemesi storica.

«Appunto. La politica ha sempre strumentalizzato la giustizia: bastava un avviso di garanzia per essere messi fuorigioco. Ora lo stesso meccanismo dilaga dentro la magistratura e il Csm: la giustizia strumentalizza la giustizia».

Fra l’altro si procede sulla base di intercettazioni che sono scivolose per definizione.

«Certo. Quelle di cui parliamo in questi giorni sono parziali, incomplete, non sono state trascritte con i sacri crismi, ma a questo punto è bene che i magistrati assaggino sulla loro pelle queste tecniche investigative molto, molto invasive, utilizzate in tutti questi anni con una certa disinvoltura».

In questo caso si è andati oltre con il trojan inserito nel telefonino di Luca Palamara.

«Con il trojan ascolti tutto quello che viene detto al telefono e vicino al telefono, abolendo la vecchia distinzione fra intercettazioni telefoniche e ambientali. Questo strumento mi lascia perplesso ma il decreto Spazzacorrotti ha esteso la sua applicabilità anche ai reati di corruzione e non solo di mafia. Solo che la nuova disciplina entra in vigore il 1 luglio. Per questo io temo che tutti questi atti siano nulli».

Lei ha sempre attaccato la contiguità fra politica e giustizia. Non è cambiato niente dai tempi di Mani pulite?

«Pensi che una ventina d’anni fa fui convocato dai probiviri dell’Anm allora guidata da Elena Paciotti proprio per aver detto questa banale verità. Mi dissero che li avevo offesi con le mie parole, io mandai a quel paese l’Anm e di quella storia non si è saputo più nulla. Ma la patologia rimane: pensi a quante toghe sono entrate in Parlamento a metà o a fine carriera. Insomma, non siamo ingenui: le candidature non si costruiscono in 24 ore, evidentemente ci sono rapporti consolidati nel tempo».

Come si esce da questa situazione?

«Io la mia proposta l’ho formulata da tempo, almeno per il Csm: questo stato di cose si supera con il sorteggio».

Con i dadi?

«Con la sorte, come si fa per il Tribunale dei ministri e per i giudici popolari che danno anche l’ergastolo. Si prepara una lista di personalità specchiate e di prestigio: giudici di Cassazione, avvocati di lunga esperienza, professori universitari e da quel cesto si pescano i consiglieri. È l’unico modo, a mio parere, per spezzare il legame fra eletti e elettori. Una vicinanza che stride. Ancora di più nella formazione della Sezione disciplinare del Csm, insomma il tribunale della magistratura».

Che cosa non va nella Disciplinare?

«Il paradosso, chiamiamolo così, è clamoroso: i giudici vengono scelti dentro il Csm dai magistrati. Fatte le debite proporzioni è come se l’inquisito eleggesse la corte che dovrà decidere se assolverlo o condannarlo».

Intanto lo scandalo dell’inchiesta di Perugia si allarga. Il Csm assomiglia a una Asl o a una municipalizzata fra incursioni dei politici, nomine, veleni e gossip. Esagerazioni?

«Capisco che il popolo guardi con sconcerto ad una realtà che pareva immacolata ed è invece il crocevia di scorribande e scontri fra opposte fazioni. Questo mi addolora ma purtroppo non mi sorprende».

Rif: http://www.ilgiornale.it/news/politica/i-giudici-provano-sulla-loro-pelle-processi-mediatici-e-1707314.html

Quel tribunale “amico” che valuterà il pm di Etruria, Procuratore Roberto Rossi

Niente di strano, procedura standard dopo l’esposto di un cittadino che ha segnalato a Palazzo dei Marescialli gli articoli del Giornale e la storia dell’appartamento.

La Prima Commissione esaminerà le carte e valuterà. Due le alternative da proporre al plenum del Csm: archiviazione, qualora gli elementi a carico di Rossi siano ritenuti evanescenti oppure trasferimento per incompatibilità ambientale nel caso in cui l’episodio della casa sia considerato uno scivolone indifendibile.

Si vedrà. Per ora si deve registrare che l’organismo ha ai suoi vertici una coppia di personaggi che conoscono molto bene il pm dell’inchiesta su Banca Etruria. Il presidente è Giuseppe Fanfani, avvocato, ex sindaco di Arezzo, ovvero la città in cui Rossi ha svolto gran parte della sua carriera a partire dal lontano 1998. Prima come «soldato semplice», poi, pur con qualche interruzione per incarichi in altre sedi, come reggente e infine capo dell’ufficio.

Si può pacificamente affermare che Rossi e Fanfani sono, ciascuno per la propria parte, fra le figure più in vista della città. Fanfani, appartenente al Pd, è stato il primo cittadino fra il 2006 e il 2014 quando ha lasciato la Toscana per Roma e Palazzo dei Marescialli. Dunque ha incontrato Rossi com’è normale che sia tutte le volte che gli impegni istituzionali l’hanno richiesto. Non solo: l’avvocato aretino è da sempre il penalista di riferimento di Banca Etruria e dei suoi vertici, a cominciare dall’ex vicepresidente Pier Luigi Boschi, papà del neosottosegretario alla presidenza del Consiglio, Maria Elena. Da quando si è spostato a Roma, Fanfani senior, per evitare potenziali conflitti di interesse con annesse polemiche, ha correttamente ceduto gli incartamenti al figlio Luca che manda avanti lo studio di famiglia. Insomma, in un modo o nell’altro Fanfani e Rossi si sono incontrati o sfiorati chissà quante volte nella loro normale attività.

Ancora più marcato è, se possibile, il rapporto che lega Rossi a Luca Palamara. Entrambi militano nella stessa corrente, Unicost, il pancione centrista della magistratura tricolore, e hanno lavorato nella stessa squadra. Palamara è stato il presidente dell’Anm fra il 2008 e il 2012, nello stesso periodo Rossi era nella giunta centrale dell’Associazione. I due sono in sintonia, buoni amici, e del resto, nelle nuove vesti di consigliere del Csm, Palamara è corso in aiuto del collega. Rossi era sotto attacco per essersi trovato a un crocevia assai delicato: indagava su Banca Etruria e dunque in qualche modo sulla famiglia di un ministro, la Boschi, del governo Renzi, ma in contemporanea era consulente dello stesso esecutivo. Una situazione inopportuna, a sentire più di un consigliere. «Ogni volta che ponevo il tema in discussione – ricorda Pierantonio Zanettin, consigliere laico di Forza Italia – Palamara interveniva sempre per difendere Rossi». La vicenda, come è noto, è finita in niente, ma non è questo il punto.

Ora Fanfani e Palamara si misureranno con il dossier relativo all’appartamento situato nelle campagne subito fuori Arezzo e nella disponibilità di Rossi fra il 2010 e il 2011. Una vicenda irrilevante dal punto di vista penale, ma che potrebbe aver ammaccato il prestigio del procuratore. Per questo la Prima commissione ha deciso di approfondire la pratica, affidandola ad Aldo Morgigni: la toga non avrebbe mai pagato un euro. Né per il canone d’affitto, né per le bollette o le spese condominiali. Una macchia per il custode della legalità.

Rif: http://www.ilgiornale.it/news/politica/tribunale-amico-che-valuter-pm-etruria-1344324.html

Caso Pm Roberto Rossi, il Csm si schiera con gli amici del Pm

E i consiglieri si schierano con i colleghi sotto i riflettori: Giuseppe Fanfani e Luca Palamara. Roberto Rossi, il procuratore della Repubblica di Arezzo, ha un legame collaudato con i due: l’ex sindaco di Arezzo Fanfani, avvocato e oggi presidente della Prima commissione dell’organo di autogoverno della magistratura, l’ex numero uno dell’Anm Palamara.

Incroci. Coincidenze. Suggestioni, ma anche rapporti cementati dalla consuetudine. Nulla di male, solo il Giornale sottolinea che la prestigiosa coppia Fanfani-Palamara guida l’organismo, appunto la Prima commissione, chiamato ad affrontare nelle prossime settimane l’imbarazzante vicenda della garçonnière.

Per la precisione, fra il 2010 e il 2011 Rossi aveva le chiavi di una appartamento che frequentava con le sue amiche, avvocatesse secondo la vox populi. Una casa situata nei dintorni di Arezzo e occupata da Rossi per un anno e mezzo, a quanto risulta, senza versare un euro per il canone e le spese condominiali. Quella storia, irrilevante dal punto di vista penale, potrebbe diventare una macchia sul prestigio e il curriculum che dovrebbe essere al disopra di ogni sospetto, voce o gossip.

La Prima commissione esaminerà la vicenda su input del Comitato di presidenza che ha aperto il dossier. Il Giornale, dopo aver raccontato tutti i passaggi della storia che molti ad Arezzo conoscevano da anni, si concentra sulla Prima commissione. Fanfani è stato il primo cittadino di Arezzo, la città di Rossi, prima di approdare nel 2014 a Roma. Ma, in un interminabile gioco di specchi, è anche considerato l’avvocato di riferimento di Banca Etruria, l’istituto di credito oggi al centro dell’indagine avviata dal pm. Palamara, invece, è stato al timone dell’Anm fra il 2008 e il 2012, nello stesso periodo Rossi era nella giunta dell’associazione.

Fatti. Non opinioni. Utili per comprendere il contesto in cui matura il procedimento che potrebbe chiudersi con l’archiviazione oppure con il trasferimento di Rossi per incompatibilità ambientale.

Questa è la trama. Ma a Palazzo dei Marescialli l’articolo non passa inosservato. Anzi, suscita qualche malumore. Viene interpretato da più un consigliere come un attacco preventivo, a freddo, alla credibilità dei consiglieri e più in generale dell’istituzione. E allora il plenum vira su quel tema e si apre con un dibattito che è in sostanza un atto di fiducia verso Palamara e Fanfani.

In verità il Giornale non si è mai permesso di mettere in dubbio la correttezza e le capacità dei due, ma ha solo ricostruito una rete di relazioni, peraltro legittime.

Dopo le vacanze finalmente si passerà all’esame della vicenda: relatore il togato Aldo Morgigni.
Rif: http://www.ilgiornale.it/news/politica/caso-rossi-csm-si-schiera-amici-pm-1344990.html

I magistrati furbetti che fanno milioni con le aste immobiliari (Alessandro Di Giacomo, Chiara Mazzaroppi Francesco Mazzaroppi, Gemma Cucca, Elisabetta Carta)

Case e ville comprate per poco e rivendute a prezzi da capogiro. Così un gruppo di toghe in Sardegna lucrava sulle gare e sulle speculazioni edilizie.

I magistrati furbetti che fanno milioni con le aste immobiliari

Magistrati proprietari di ville “vista mare” da milioni di euro o che comprano immobili da capogiro ai prezzi ribassati dell’asta e poi li rivendono al valore di mercato, intascandosi la differenza. In barba alla legge che prevede che le toghe non possano partecipare alle aste giudiziarie, per ovvi motivi di conflitti di interessi.

Invece a Tempio Pausania, in Sardegna, c’erano giudici che facevano speculazioni edilizie facendo vincere le gare ad amici i quali poi li nominavano come aggiudicatari. E a quel punto, i magistrati rivendevano quegli immobili al triplo del prezzo.

Un giro di affari smascherato da altri magistrati, quelli di Roma, in particolare il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il pubblico ministero Stefano Fava, che hanno iniziato a indagare nel 2016 su una villa affacciata sul mare di Baia Sardinia.

L’immobile, appartenuto a un noto imprenditore della zona finito male, venne messo all’asta e aggiudicato, complice il giudice fallimentare Alessandro Di Giacomo, a un avvocato «per persona da nominare». Le persone che poi sono state indicate erano Chiara Mazzaroppi, figlia dell’ex presidente del tribunale di Tempio Pausania, Francesco, e il di lei compagno, Andrea Schirra, anche loro magistrati in servizio (presso il tribunale di Cagliari). La villa, grazie alle «gravi falsità» contenute nella perizia, per usare le parole del gip di Roma Giulia Proto, è stata pagata 440 mila euro. Un ribasso ottenuto con «vizi macroscopici nella procedura di vendita»: tra l’altro si certificava la presenza in casa del comodatario che in realtà era morto qualche mese prima. A nulla erano valse segnalazioni e proteste dei creditori: il giudice ha deciso di ignorarle. Per garantire alla figlia del suo ex capo, o forse direttamente a lui, un affare immobiliare non da poco: l’intenzione era di ristrutturare il complesso e di rivenderlo a 2 milioni di euro. Ovvero con una plusvalenza di 1,6 milioni.

Insomma, un affare niente male. Per il quale, poco prima di Natale, il giudice Alessandro Di Giacomo è stato punito con l’interdizione a un anno dalla professione. I Mazzaroppi, padre e figlia, e Schirra sono indagati.

L’indagine ha svelato anche una serie di affari simili per i quali, però, non è possibile procedere: i reati sono già prescritti. Dalle carte depositate dalla procura di Roma, infatti, si scopre che gli affari immobiliari di Francesco Mazzaroppi hanno origini ben più lontane. Correva l’anno 1999 quando il giudice Di Giacomo, ancora lui, assegnò a un’avvocatessa, Tomasina Amadori (moglie del suo collega Giuliano Frau), il complesso alberghiero “Il Pellicano” di Olbia, una struttura da 34 camere. Amadori, a quel punto, indicò come aggiudicataria la Hotel della Spiaggia Srl, società riconducibile al commercialista Antonio Lambiase. Il prezzo dell’operazione era poco più di un miliardo di lire. Un anno dopo, “Il Pellicano” venne venduto da Lambiase, vicino a Mazzaroppi padre, a 2,3 miliardi: più del doppio del prezzo di acquisto. Scrive il pm di Roma Stefano Fava: «Risultano agli atti gli stretti rapporti economici intercorrenti tra Antonio Lambiase e Francesco Mazzaroppi. Lambiase ha infatti acquistato un terreno in località Pittolongu di Olbia cedendone poi metà a Rita Del Duca, moglie di Mazzaroppi.

Su tale terreno Lambiase e Mazzaroppi hanno edificato due ville», nelle quali vivono tuttora. Chiosa il pm: «Le evidenziate analogie, oggettive e soggettive, con la vicenda relativa all’aggiudicazione dell’immobile di Baia Sardinia, nonché la perfetta sovrapponibilità delle condotte dimostrano come anche la vendita a prezzo vile dell’albergo “Il Pellicano” sia conseguente a condotte illecite, non più perseguibili penalmente perché prescritte».

A corredo di tutto ciò, la procura di Roma ha raccolto anche una serie di testimonianze tra le quali quella dell’allora presidente della Corte d’Appello di Cagliari, Grazia Corradini, che non usa mezzi termini: «In relazione all’acquisto del terreno su cui Francesco Mazzaroppi aveva edificato la sua villa c’erano state in passato delle segnalazioni relative a rapporti poco limpidi con i locali commercialisti e in particolare con Lambiase, consulente del Consorzio Costa Smeralda, insieme al quale avrebbe acquistato più di dieci anni fa il terreno su cui era stata realizzata la villa».

La Corradini racconta poi di come a queste segnalazioni fossero seguite due indagini, una penale e una predisciplinare senza alcun esito.

Poi Corradini parla anche della villa a Baia Sardinia: «Lavicenda indubbiamente appare poco limpida se si considera il prezzo di vendita di una villa assai prestigiosa che si affaccia su Baia Sardinia, il cui prezzo di mercato si può immaginare pari ad almeno alcuni milioni di euro». Una questione su cui «ha relazionato il presidente del Tribunale di Tempio, la cui relazione allego unitamente ai documenti acquisiti che sembrerebbero confermare una “regolarità formale” nelle procedure di vendita, come ci si poteva attendere visto che eventuali interferenze è difficile che risultino dagli atti della procedura».

Il presidente del tribunale di Tempio chiamato in causa era Gemma Cucca, che ora è presidente della Corte d’Appello di Cagliari, dove è succeduta proprio alla Corradini. Anche lei è indagata dalla procura di Roma.

Ce ne sarebbe abbastanza, ma il torbido al tribunale di Tempio Pausania continua con le rivelazioni di segreto d’ufficio, ingrediente indispensabile in un sistema che si reggeva su favori e amicizie. Sempre nel corso delle indagini sulla villa di Baia Sardinia, infatti, gli inquirenti hanno sentito due indagati parlare tra di loro del fatto che il gip Elisabetta Carta, che aveva firmato il 1 giugno 2016 un decreto d’urgenza per intercettarli, li avesse prima avvisati. Scrive il giudice di Roma: «La vicenda è particolarmente grave: il gip che ha autorizzato una intercettazione informa gli indagati che sono sotto intercettazione dicendo loro di “stare attenti”, il tutto mentre le intercettazioni sono ancora in corso».

Elisabetta Carta si è difesa negando le accuse a suo carico e ammettendo solo di avere avuto con la coppia buoni rapporti lavorativi. Per lei è già stata disposta l’interdizione per un anno.

Non è finita: di quelle intercettazioni, chissà come, venne informato anche Francesco Mazzaroppi, all’epoca presidente della Corte d’Appello di Cagliari e – come detto – padre dell’acquirente Chiara Mazzaroppi.
Tutto questo sembrava normale, nel tribunale di Tempio Pausania, dove i magistrati erano preoccupati soltanto di fare affari immobiliari.

Rif: http://espresso.repubblica.it/inchieste/2018/04/10/news/i-magistrati-furbetti-che-fanno-affari-con-le-aste-immobiliari-1.320423

Banca Etruria, il Csm sul pm Rossi Roberto: “Chiese la proroga dell’incarico e fu pagato”

Tra le questioni controverse l’omissione dell’eventuale conflitto di interessi per i due incarichi iniziati ai tempi del governo Letta e proseguiti con quello di Renzi. Le due consulenze furono pagate in totale 7500 euro.

Niente procedura di trasferimento per incompatibilità nei confronti del procuratore di Arezzo Roberto Rossi. Secondo il Csm non ci sono gli estremi, cioè non ci sono state condotte seppure “indipendenti da colpa” tali da mettere il magistrato “in condizione di non esercitare le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialità“. E in particolare “non ci sono elementi per sostenere un rapporto di conoscenza tra il dottor Rossi con il ministro Maria Elena Boschi, tale da mettere in discussione il profilo dell’imparzialità e dell’indipendenza del magistrato nella trattazione di vicende processuali che potenzialmente potrebbero coinvolgere parenti del citato ministro”. A deciderlo è stato il plenum del Consiglio superiore della magistratura che così ha archiviato il caso del capo dei pm di Arezzo finito all’attenzione di Palazzo dei marescialli per un incarico di consulenza giuridica svolta per il governo fino alla fine del 2015, quando già aveva avviato le prime indagini su Banca Etruria, di cui è stato per un periodo vicepresidente Pierluigi Boschi, padre del ministro per le Riforme. Ma seppure resa più soft, la delibera approvata non risparmia critiche al procuratore di Arezzo, a cui si rimprovera di non aver pensato di rinunciare all’incarico di consulenza quando cominciò a indagare su Banca Etruria e di essersi autoassegnato i relativi fascicoli, coinvolgendo nelle inchieste i suoi sostituti solo dopo le sue audizioni davanti al Csm.

Non si è trattato di una decisione indolore né per Rossi, né per il Csm. Per il magistrato perché gli atti sono stati comunque inviati al pg della Cassazione, titolare dell’azione disciplinare nei confronti delle toghe per le valutazioni di sua competenza. Per il Csm perché la discussione è stata costellata da pesanti critiche sul lavoro svolto dalla prima commissione, che si occupa delle procedure disciplinari, accusata di aver “travalicato i suoi compiti”, con un’istruttoria quasi da “Superprocura“, dalla laica di Forza Italia Elisabetta Casellati e dai togati di Magistratura Indipendente, Claudio Galoppi e Lorenzo Pontecorvo.

E anche perché sulla delibera finale si sono astenuti gli stessi relatori, il presidente della commissione, l’ex ministro Renato Balduzzi, e il togato di Area Piergiorgio Morosini, che pure avevano presentato delle modifiche al testo per venire incontro alle richieste di Unicost, la corrente in cui “milita” il procuratore di Arezzo. L’accordo è saltato quando a sorpresa il gruppo delle toghe di centro ha presentato un emendamento, approvato a maggioranza, per escludere l’inserimento degli atti nel fascicolo del procuratore.

Risultato: la delibera finale è passata con 11 voti (dei togati di Unicost, di Magistratura Indipendente, dei laici di Ncd Antonio Leone e di Sel Paola Balducci e del primo presidente della Cassazione), il no del laico di Forza Italia Pierantonio Zanettin (contrario a un testo ammorbidito perché convinto che “l’immagine e la credibilità del procuratore siano definitivamente compromesse”) e l’astensione oltre che dei relatori, dell’intero gruppo di Area, del pg della Cassazione e del vicepresidente Giovanni Legnini (per assicurare il numero legale, come ha spiegato lo stesso numero due di Palazzo dei marescialli).

Nuove verifiche su Etruria: i dubbi sulle versioni del procuratore di Arezzo, Roberto Rossi.

Lettere e verbali di Palazzo Koch su fusione e bancarotta. Per trovare un partner l’istituto incaricò come advisor Rothschild e Lazar. Ci saranno altri controlli su Boschi senior e sulle responsabilità del cda.

La commissione parlamentare d’inchiesta dovrà svolgere nuove verifiche su quanto accaduto nel crac di Banca Etruria. In vista dell’ufficio di presidenza fissato per martedì che deciderà sulle audizioni del governatore di Bankitalia Vincenzo Visco e dell’ex amministratore delegato di Unicredit Federico Ghizzoni, saranno acquisiti nuovi documenti che riguardano i rapporti tra l’istituto di credito aretino e Bankitalia. Le carte già a disposizione mostrano infatti che durante l’audizione di giovedì il procuratore Roberto Rossi, titolare dell’indagine, avrebbe fornito versioni diverse da quelle che risultano agli atti. Tanto che alcuni esponenti dell’opposizione lo accusano addirittura di «aver mentito prospettando una situazione ben diversa da quella che invece ha portato al fallimento». Sono proprio le relazioni, gli scambi di lettere e le citazioni per le azioni di responsabilità a fornire il quadro che stride con le dichiarazioni dell’alto magistrato. Anche tenendo conto che Rossi ha dichiarato di avere tuttora in corso «approfondimenti sul ruolo di Bankitalia e Consob», pur consapevole che si tratta di attività per le quali è competente la procura di Roma.

L’operazione con Pop Vicenza

«Ci è sembrato un poco strano — attacca Rossi — che la Banca d’Italia avesse inoltrato a Banca Etruria un invito di integrazione con la Banca Popolare di Vicenza che era in condizioni simili». In realtà la sequenza emersa dagli atti racconta una storia diversa. Il 3 dicembre 2013 l’allora governatore Visco scrive una lettera al presidente del cda di Etruria Giuseppe Fornasari per evidenziare le «rilevanti criticità» dovute tra l’altro «alle dimensioni del portafoglio deteriorato» e sottolinea la convinzione che la Banca «non sia più in grado di percorrere in via autonoma la strada del risanamento». Dunque «dispone la convocazione del cda entro 10 giorni dal ricevimento della missiva con all’ordine del giorno l’integrazione della Popolare in un gruppo di adeguato standing in grado di apportare le necessarie risorse patrimoniali, manageriali e professionali». Per questo Etruria nomina come advisor «per il supporto» nella ricerca Rothschild e Lazard che contattano 27 gruppi. Si fa avanti soltanto PopVicenza che il 29 gennaio 2014 formalizza il proprio interesse. Il direttore generale chiede un incontro in Bankitalia per illustrare la strategia: procedere con «un’Opa per cassa su almeno il 90 per cento del capitale». Bankitalia dà conto delle trattative in corso con numerosi verbali. L’ultimo, datato 18 giugno 2014, è un «appunto per il direttorio» in cui il capo della Vigilanza Carmelo Barbagallo dà atto che il negoziato è fallito «perché Etruria ha formalmente respinto la proposta di Opa». E quindi propone «un’approfondita ed estesa opera di revisione degli impieghi riguardante la corretta classificazione di vigilanza e un’aggiornata valutazione del grado di recuperabilità». 

Roberto Rossi e Pier Ferdinando Casini (Imagoeconomica)
La posizione di Pierluigi Boschi

Il secondo punto sul quale saranno effettuati ulteriori controlli riguarda la posizione dell’ex vicepresidente Pier Luigi Boschi, padre del sottosegretario Maria Elena. Durante la sua audizione il procuratore Rossi ha dichiarato che Boschi e gli altri componenti dei cda a partire dal 2010 non sono tra gli indagati per bancarotta «perché non hanno partecipato alle riunioni degli organi della banca che hanno deliberato finanziamenti finiti poi in sofferenza». Ma anche perché «non avevano informazioni sufficienti sulle operazioni». Una posizione che ha scatenato le opposizioni. Con una richiesta formale il senatore di Idea Andrea Augello accusa il magistrato di «non aver detto la verità, esponendo una tesi falsa» e per questo ha chiesto al presidente Pier Ferdinando Casini di sollecitare Bankitalia alla trasmissione di nuovi documenti. E spiega: «Tutte le linee di credito e richiedono un formale rinnovo, generalmente ogni 18 mesi. È impossibile che il nuovo cda si sia baloccato solo con crediti insolventi, ma deve aver rinnovato tra il 2010 e il 2012 tutti i crediti privi di garanzie erogati nel biennio precedente. E questo è peggio di quanto fatto da chi li ha concessi anche perché ha ritardato la possibilità di avviare una procedura di recupero, finché la situazione non è divenuta insostenibile e il cda ha proceduto ad una serie di svalutazioni, azzerando il patrimonio aziendale».