Magistrati arrestati a Trani, dalle agende di Nardi nuove accuse ai giudici

Gli incontri dell’ex gip con Savasta e l’imprenditore D’Introno confermati dal Gps

Dalle agende sequestrate a Michele Nardi potrebbero arrivare i riscontri alle accuse più recenti nei confronti dell’ex gip, in carcere da gennaio con l’accusa di essere a capo della cricca di giudici che truccava i processi nel Tribunale di Trani. La Procura di Lecce ha chiesto ai carabinieri di Barletta una serie di accertamenti incrociati sulle dichiarazioni rese dai protagonisti della vicenda: incontri, fascicoli, passaggi di denaro. E in questa analisi rientrano, tra l’altro, gli appunti di Nardi.

Al momento dell’arresto Nardi e Savasta sapevano da più di un anno di essere sotto indagine a Lecce per corruzione, avendo ricevuto la notifica un avviso di proroga delle indagini. Dalle agende dell’ex gip, tuttora in carcere a Matera, emergono i tentativi di capire di più su quella indagine. Ma ci sono anche gli incontri con Flavio D’Introno, l’imprenditore di Corato che ha raccontato delle tangenti ai magistrati causando il terremoto dell’inchiesta. «Tornato ieri a Roma – annota ad esempio Nardi il 4 luglio 2017 -. Ieri D’Introno mi ha cercato e ha detto che la moglie era stata sentita giovedì scorso dai Cc di Barletta (…) Le hanno chiesto dei rapporti del marito con me e se sapesse di regali fatti». Dalle agende emergono, numerosi incontri con Savasta (di alcuni Nardi ha parlato nell’interrogatorio di garanzia) nell’autunno 2017 ma anche a maggio 2018: «Sav dice che non ha novità». Tuttavia, ricordano gli inquirenti, nell’interrogatorio Nardi ha detto di aver interrotto tutti i contatti con gli ex colleghi di Trani dal giorno del trasferimento a Roma (febbraio 2006): le agende dimostrerebbero il contrario. Allo stesso modo, dalle agende si ricaverebbe che i primi contatti con D’Introno risalirebbero al 2012.

A Nardi (oltre all’associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, insieme a Savasta, allo stesso D’Introno e ad altre due persone) vengono contestati tra gli altri i reati di millantato credito, estorsione e violenza privata. La prima accusa riguarda i soldi che l’ex gip avrebbe chiesto a D’Introno per intervenire sui giudici della Corte d’appello di Bari dove l’imprenditore è stato poi condannato per usura. Le altre due accuse si riferiscono alle pressioni di Nardi su D’Introno, con le minacce di morte che gli sarebbero state fatte se non avesse continuato a pagare: Nardi nega, ma la Procura di Lecce ha cristallizzato questa ipotesi nell’avviso di conclusione delle indagini di luglio. Lo stesso Savasta, nel corso dell’incidente probatorio, racconta che a un certo punto – cioè quando i due avevano avuto un litigio per fatti personali – Nardi avrebbe tentato di scaricare l’imprenditore: «Sembra che c’era stato un momento in cui tra lui e D’Introno, un momento limitato nel tempo, in cui ce l’aveva con D’Introno per cui mi disse “Tutto quello che è stato fatto è meglio… distruggilo!”».

I carabinieri, su richiesta della Procura, hanno sottoposto a verifica anche le dichiarazioni di D’Introno in merito ai rapporti con l’ex pm Luigi Scimè (anche lui indagato), cui avrebbe consegnato l’ultima tranche di una tangente (10mila dei 30mila euro concordati per chiudere le indagini sugli incendi nelle ville della moglie), a Milano durante il ponte del 1° maggio 2016: , circostanza che il magistrato nega: dagli accertamenti è emerso che D’Introno era effettivamente a Milano in quei giorni, in compagnia di un amico, e che anche il magistrato aveva un motivo familiare per recarsi nel capoluogo lombardo. I militari hanno anche acquisito i tracciati del gps della Bmw di Nardi, per chiarire se il 6 dicembre 2013 l’auto dell’ex gip potesse trovarsi nel distributore Esso dove – secondo D’Introno – sarebbero passati di mano 200mila euro: i dati di localizzazione non sono precisi, ma per i carabinieri quel giorno l’auto è effettivamente transitata sulla provinciale Trani-Bitonto in prossimità dell’area di servizio.

Rif: https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/home/1163342/magistrati-arrestati-a-trani-dalle-agende-di-nardi-nuove-accuse-ai-giudici.html

Affidi, l’ex giudice: “Cacciato perché mi opposi”

Protesta davanti al carcere minorile del Pratello

«Nel periodo 2009-2013 due giudici togati e il sottoscritto, allora giudice onorario, si adoperarono strenuamente per contrastare e denunciare le storture giudiziarie del Tribunale per i Minorenni di Bologna. Allontanamenti ingiustificati di minori in primis ma anche altri procedimenti o interventi ablativi della potestà genitoriale. Non solo subimmo procedimenti disciplinari ingiustificati poi cassati, ma veri e propri atti lesivi delle proprie funzioni. Fatti come quelli di Bibbiano non sono che un anello di procedimenti delittuosi e perversi». Una lunga lettera scritta dal ferrarese Mauro Imparato, psicologo, neuropsicologo ed ex giudice onorario del tribunale dei minori, solleva il velo su una guerra fratricida tra le mura del tribunale minorile di Bologna che, seppur antecedente e non collegata all’inchiesta Angeli e Demoni, le fa in un certo qual modo da ‘sfondo’.

L’oggetto del contendere è proprio quello degli affidi. Il tribunale dei minori, in quegli anni, era diviso in due. Da una parte i giudici togati Francesco Morcavallo e Guido Stanzani e l’onorario Imparato. Dall’altra, tutti i restanti colleghi, guidati dall’allora presidente del tribunale Maurizio Millo. I tre erano fautori di una linea ‘morbida’ e non appiattita sui servizi sociali. Sostenevano insomma che bisognasse agire più rapidamente nella restituzione dei figli alla famiglia oppure non allontanarli affatto. Al contrario, la maggioranza dei magistrati, spiega Millo contattato dal Carlino, era «più prudente nell’accertare la situazione delle famiglie e la loro capacità di recupero».

`Lo scontro è deflagrato con la morte per ipotermia di un neonato in piazza Maggiore a Bologna e la guerra tra toghe è finita davanti al Csm, tirato in ballo a suon di esposti. L’organo di autogoverno dei giudici, valutata la situazione, ha allontanato Morcavallo e Stanzani. Il primo con un provvedimento cautelare il secondo con un trasferimento volontario. Morcavallo, però, ha fatto ricorso in Cassazione e la suprema corte non solo ha annullato il trasferimento ma ha anche ‘bacchettato’ il Csm per non aver tenuto conto delle sue argomentazioni. Morcavallo aveva infatti denunciato gravi abusi quali «affidamenti di bambini scarsamente motivati, provvedimenti provvisori prorogati all’infinito e l’appiattimento del tribunale sulle relazioni dei servizi sociali». Accuse che scivolano addosso a Millo, sicuro della correttezza del proprio operato. «Il Csm e l’Ispettorato – ha chiarito – non hanno trovato alcun elemento per dire che non svolgevamo il nostro compito in maniera corretta».

Rif: https://www.ilrestodelcarlino.it/reggio-emilia/cronaca/affidi-1.4713699

“Così i giudici hanno aiutato gli orchi di Bibbiano”. Le rivelazioni choc dell’ex magistrato

Reggio Emilia, 2 ago – Finalmente l’ex giudice Francesco Morcavallo ha trovato orecchie disposte ad ascoltarlo. Orecchie che vogliono conoscere ogni particolare ancora celato riguardando lo scandalo degli affidi illeciti della Val d’Enza. Sì perché Morcavallo è stato testimone diretto dell’orrore operato dagli orchi dei servizi sociali di Bibbiano, denunciando con altri due colleghi le irregolarità e gli abusi del sistema di affidi, e scontrandosi contro il muro di gomma delle omertà e delle omissioni, giocandosi anche la carriera di magistrato.

Denunce inascoltate

Ora che il vaso di Pandora è stato scoperchiato e tutti si interessano al caso Bibbiano, l’ex giudice ha gioco facile: ma non è sempre stata così. In un’intervista apparsa ieri sul Giornale.it aggiunge nuovi tasselli a quell’inferno. Innanzitutto parlando delle anomalie di tipo amministrativo. “Abbiamo  fatto degli esposti su anomalie enormi”, spiega. “Sparivano fascicoli. Noi decidevamo di riassegnare i bambini alle famiglie naturali ma, le nostre decisioni venivano revocate da altri giudici. Noi mandavamo i bambini a casa e, dopo poco, venivano riportati via”. Nessuno operava controlli sull’attendibilità delle segnalazioni dei servizi sociali. “Non c’era e non c’è una verifica. Il giudice deve verificare due cose, che la relazione contenga dei fatti che giustifichino le valutazioni e che quei fatti siano veri. Il giudice deve accertare i fatti per capire se deve provvedere e come farlo.” E Morcavallo, segnalando queste irregolarità, si è tirato la zappa sui piedi. “Ci sono stati dei veri e propri provvedimenti nei miei confronti poi, successivamente, annullati dalla Cassazione”. Fino alla decisione di lasciare il tribunale dei minori. “Non ce la facevo più. É doloroso trovarsi ad operare consapevole di essere al centro di un sistema del genere, senza riuscire a fare niente. É disumano. Ho dovuto dimettermi.”

Chi controlla i controllori

Una cosa è certa, l’ex giudice prima di arrendersi le aveva provate tutte. “Io e altri due colleghi abbiamo denunciato tutto al Csm, alla Procura Generale, alla Corte di Cassazione, a tutte le autorità di garanzia. Ma nulla. Nessuno si è mosso. Per fortuna ci ha pensato la procura di Reggio Emilia”. Ma per Morcavallo il sistema è una cane che si morde la coda: “Il problema è che in queste istituzioni operano gli stessi referenti politici dei gestori di questo sistema assurdo”. Un’accusa alle istituzioni quindi, che invece di vigilare, si giravano dall’altra parte, o peggio coprivano. “Ha sentito un magistrato, un presidente di un tribunale, un componente del Csm, chiedere scusa? Non dico dimettersi. Solo chiedere scusa. Non è stato fatto. Qualcuno è arrivato persino a dire ‘io sono la vittima’, che credo sia anche offensivo per le vere vittime di questo sistema”.

Lo strapotere dei servizi sociali

L’ex magistrato punta il dito contro l’enorme potere che i giudici assegnavano ai servizi sociali, libero di fare il bello e il cattivo tempo sulla pelle di minori e famiglie naturali: “Facevano subito un provvedimento urgente che, come minimo, era di affido del bambino ai servizi sociali. Questo è come dire ai servizi sociali da questo momento tu, fai quello che vuoi. Sottoporre il bambino a terapie, fagli fare dei percorsi in cliniche diagnostiche, terapie psicofarmacologiche, molto spesso addirittura lo allontanavano e disponevano che venisse portato in una casa-famiglia”. Morcavallo è di un’altra scuola: a Panorama spiegò che “che l’interesse del minore debba prevalere, e che il suo restare in famiglia, là dov’è possibile, coincida con questo interesse. È la linea meno invasiva, la stessa seguita dalla Corte costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo”.

L’eterno ritorno alla casa famiglia

Da lì partiva l’iter di controlli, sedute di psicoterapia, visite, relazioni (spesso inventate, come abbiamo visto), processi penali, che nonostante finissero con l’assoluzione dei genitori naturali, non garantivano il ritorno a casa dei bambini sottratti alla famiglia naturale. “Innanzitutto, la verifica del tribunale dei minori è autonoma da quella del tribunale penale ed è molto più lenta. Ma il punto è che subentrano degli altri fattori di valutazione che non dovrebbero subentrare.” L’iter, cioè, ripartiva dall’inizio, con verifiche e relazioni. Quasi tutte falsificate. “Il punto è che le relazioni vengono fatte dalle associazioni che seguono il bambino preso in causa, dalla casa-famiglia in cui vive… dagli stessi che hanno tutto l’interesse che la situazione rimanga invariata, che non vogliono che il bambino torni a casa. I soggetti sono gli stessi che sperano che gli affidamenti siano tanti e lunghi”. Quindi i servizi sociali hanno pieno potere e sono liberi di amministrarlo nel peggiore dei modi: “Il potere glielo danno i giudici – spiega – L’assistente sociale di per sé non ha uno strumento per fare questo certo tipo di cose. O, comunque, non ha uno strumento per farle in modo durevole. L’unica cosa che consente la legge, oggi, all’assistente sociale è la possibilità, in caso di emergenza, di prendere un bambino e allontanarlo dalla famiglia ma per il periodo dell’urgenza. Vale a dire massimo pochi giorni. Periodo che, per essere prolungato necessita di una decisione di un giudice. I terapeuti, gli psicologi, non hanno assolutamente gli strumenti giuridici per costringere la famiglia a soggiacere a quel trattamento”.

La buona fede non è un’attenuante

Senza contare che i cosiddetti “giudici onorari” di cui doveva essere composta parte del collegio giudicante erano spesso in conflitto di interesse: erano “psicologi, sociologi, medici, assistenti sociali. Che spesso hanno fondato istituti. E a volte addirittura le stesse case d’affido che prendono in carico i bambini sottratti alle famiglie, e proprio per un’ordinanza cui hanno partecipato”…Ma i giudici sapevano o semplicemente non si erano accorti di cosa stesse succedendo?  “In ogni caso è comunque grave”. La buona fede nn è un alibi quando sarebbe doveroso essere vigili. “Mi domando solo se sia possibile che dormissero se sono dieci anni che gli viene detto che non devono fare in questo modo, che non devono prendere per buona la relazione, ma devono verificare i fatti”.

Rif:https://www.ilprimatonazionale.it/cronaca/giudici-orchi-bibbiano-rivelazioni-choc-ex-magistrato-126384/

Magistrati arrestati a Trani, i fratelli Ferri: «Ci chiesero 4mln per fermare indagini»

Ci hanno distrutto, aggredendo anche i nostri beni patrimoniali e lasciando in mezzo alla strada oltre tremila persone e distruggendo una azienda che fatturava 400 milioni di euro l’anno». Nel 2003 il gruppo Ferri aveva 400 negozi. Sedici anni dopo, la Cassazione ha chiuso con la prescrizione il processo per bancarotta a carico dei fratelli di Corato che, solo oggi, hanno denunciato di aver subito una estorsione: un avvocato, lo stesso di cui ha parlato anche il re del grano Francesco Casillo, avrebbe chiesto 4 milioni di euro per salvarli dall’indagine condotta dall’allora pm di Trani, Antonio Savasta, e dagli arresti e dalle altre misure cautelari disposte dall’allora gip Michele Nardi.

rif:https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/home/1162646/magistrati-arrestati-a-trani-i-fratelli-ferri-ci-chiesero-4mln-per-fermare-indagini.html

41 pm citano cronista e direttore e perdono

NOVE ANNI FA quarantuno pm della procura di Napoli si associarono per citare per danni l’editore del Roma, il direttore Gigi Casciello, il cronista Roberto Paolo, l’editorialista e senatore Emiddio Novi. Dopo oltre sette anni di confronto giudiziario i magistrati, sconfitti in primo grado, hanno deciso la ritirata, rinunciando all’appello; trascorsi dodici mesi, la sentenza è diventata definitiva. Ora è necessario un passo indietro per inquadrare la vicenda.  
È il 2002 e alla procura di Napoli infuria lo scontro tra il capo Agostino 
Cordova, con un gruppo di fedelissimi, da una parte e dall’altra oltre la metà dei suoi sostituti, con il Roma schierato senza tentennamenti dalla parte del procuratore capo reggino. Per avere un’idea del calore 
Gigi Casciello e Roberto Paolo
della pugna è sufficiente scorrere alcuni dei titoli pubblicati dal Roma tra gennaio e marzo 2002: Contro Cordova la vendetta dei PMVeleno in Procura / L’ultimo ricatto contro CordovaCe l’hanno con Cordova perché ha messo ordineProcura dei veleni /Caso Cordova, il bluff dei PM ribelliIl Palazzo brucia e c’è chi pensa a spargere veleni.
L’otto aprile del 2002, a distanza di un mese dalla pubblicazione dell’ultimo articolo, viene notificato l’atto di citazione sottoscritto da quaranta magistrati della procura di Napoli (primi firmatari Marco Del Gaudio, Alessandro Milita, Francesco Cascini e Rossella Catena) e dal procuratore aggiunto Paolo Mancuso, assistiti dagli avvocati Fabio LepriPierfrancesco Torre e Paolo Maggi. Per i sette articoli pubblicati la richiesta danni è stratosferica: 13 milioni e 940mila euro perché ogni magistrato chiede un risarcimento di 340mila euro. Davanti al giudice della prima sezione civile del tribunale di Roma Massimo Corrias la vicenda giudiziaria di Emiddio Novi prende immediatamente una strada a parte perché il senatore, difeso dall’avvocato Alessandro Capograssi, solleva l’eccezione dell’insindacabilità delle sue 

Agostino Cordova e Paolo Mancusodichiarazioni prevista dalla carta costituzionale e nel giugno del 2004 la Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari gli dà ragione decidendo che l’articolo di fondo firmato da Novi e i virgolettati del senatore riportati negli articoli di Roberto Paolo sono “opinioni espresse
da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni”. Il giudice Corrias non è convinto della decisione della Giunta perché ritiene “che certe affermazioni del senatore Novi contenute nell’articolo “Il Palazzo brucia e c’è chi pensa a spargere veleni” configurano gravissime accuse alla magistratura napoletana, sia inquirente che giudicante, che non trovavano alcun riscontro in nessuno dei passi di atti parlamentari che la Giunta aveva addotto a fondamento del proprio giudizio di insindacabilità”. Solleva perciò il conflitto di attribuzioni davanti alla Corte costituzionale e dispone la sospensione del giudizio. Ma quando, con sentenza del marzo 2007 la Corte costituzionale stabilisce che la decisione sulle dichiarazioni di Novi spetta al Senato, l’editorialista del Roma esce di fatto dal giudizio.  
Il giudice esamina quindi gli articoli di Roberto Paolo, difeso dagli avvocati Gustavo Visentini e Alfonso Papa Malatesta (mentre il legale di Casciello
è Alfredo Mazzone e l’avvocato del Roma Corrado De Martini) e rileva che “nessuna responsabilità può essere ascritta al giornalista per avere pubblicato le dichiarazioni del senatore Novi, posto che in relazione alle dichiarazioni rese da importanti
Francesco Cascini e Emiddio Novi
personalità politiche la verità della notizia è data dal fatto che determinate dichiarazioni siano state rese, a prescindere dalla verità o dalla falsità del loro contenuto, atteso l’indubbio interesse della collettività alla conoscenza delle opinioni e delle dichiarazioni dei protagonisti della vita politica”.
Evidenzia quindi che nei primi due articoli presi in esame non viene indicato il nome dei magistrati “che avevano motivi di rancore verso il Procuratore” né di “quelli dediti a irregolarità o a insabbiamenti” o di “quelli scarsamente produttivi”, e non ci sono elementi “che consentano al lettore di identificarli”. E questo “porta ad escludere la commissione del delitto di diffamazione”.Quanto alla parola “ricatto”, Corrias ricorda che anche in questo caso non viene indicato il ‘ricattatore’ e comunque “il termine è all’evidenza usato in senso figurato , come sinonimo di tentativo di pressione”. Il giudice prende poi in

Rossella Catena e Alessandro Militaesame le espressioni “sostituti ribelli”, “pm frondisti”, “pm ribelli”, “arma finale”, scrivendo che “anche se colorite, al pari di analoghe espressioni usate nei titoli, non possono ritenersi offensive”. Liquida infine il termine “bluff”: “esprime un giudizio critico del 
giornalista che, essendo stato sufficientemente argomentato, non può essere considerato diffamatorio”. Il giudice perciò “respinge ogni domanda delle parti e dichiara interamente compensate le spese del giudizio”.

Rif:http://www.iustitia.it/archivio/13_aprile_11/documenti/spalla.htm