Csm, ora indagano anche i pm di Milano: nelle manovre di Lotti contro Pm Paolo Ielo spunta l’Eni

Si allarga l’inchiesta sulle cene carbonare di giudici e politici con nuove intercettazioni ritenute rilevanti. Quelle, ancora segrete, in cui l’ex ministro renziano – mentre parla di un dossier contro il pm romano che lo ha rinviato a giudizio – dice a Palamara che avrebbe alcune carte sul fratello del magistrato anticorruzione. E che gli sarebbero state date da Descalzi, amministratore delegato del colosso petrolifero

Csm, ora indagano anche i pm di Milano: nelle manovre di Lotti contro Ielo spunta l’Eni

Aggiornamento 20 giugno ore 20: La replica dell’Eni al nostro articolo

Lo tsunami che sta investendo la magistratura scoperchia ogni giorno un nuovo scandalo. Le intercettazioni che hanno coinvolto Luca Palamara, Cosimo Ferri, Luca Lotti e membri del Csm stanno terremotando non solo la giustizia italiana, ma anche molti palazzi del potere.  «Diranno che sono la P5, che sono quello delle nomine» , ragiona Palamara senza sapere di essere ascoltato dai pm della Procura di Perugia che lo indagano per corruzione. Sappiamo già che al centro delle cene riservate della compagine c’è il risiko dei nuovi capi degli uffici giudiziari di primo livello, come le procure di Roma, Firenze, Perugia e Torino. Ed è noto che le trascrizioni del Gico della Guardia di Finanza sono analizzate al microscopio sia dai magistrati umbri, sia dalla commissione disciplinare del Csm che ne ha avuti una parte.

L’Espresso, nell’inchiesta esclusiva in edicola da domenica 23 giugno e n anteprima per gli abbonati di Espresso +  adesso ha scoperto che, da qualche giorno, anche la procura di Milano sta lavorando su alcuni colloqui segreti. I pm di Perugia hanno infatti trasmesso ai colleghi meneghini alcuni passaggi ritenuti rilevanti. Quelli, in particolare, in cui Lotti e Palamara discutono di un dossier per screditare Paolo Ielo, cioè il magistrato che ha chiesto il rinvio a giudizio sul caso Consip.

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Esclusivo: Lotti, l’Eni e il dossier segreto 

Nuove intercettazioni sul Csm rivelano le manovre dell’ex ministro per colpire il pm Ielo. E spunta il nome di Descalzi. Così ora indaga anche la procura di Milano  

Un dossier basato su alcune consulenze che il fratello del pm anticorruzione, Domenico, ha con l’Eni, il nostro colosso petrolifero. Come mai questi documenti sono state trasmessi a Milano? Perché in un’intercettazione (omissata nella prima informativa della polizia giudiziaria) Lotti confiderebbe a Palamara che lui è in possesso di alcune carte sul fratello di Ielo. E che queste carte gli sarebbero state date da Claudio Descalzi, l’amministratore delegato dell’Eni. L’intercettazione, è bene sottolinearlo, è in fase preliminare, di riscontro.

A Milano Descalzi è imputato in un processo per corruzione internazionale. E sempre la procura di Milano sta indagando sul dossieraggio fatto da Piero Amara (l’ex legale dell’Eni specializzato nella compravendita di sentenze che ha dato il via anche all’inchiesta su Palamara) insieme ad alcuni pm da lui corrotti. L’obiettivo era quello di provare (con esposti fasulli in cui l’Eni e Descalzi apparivano vittime di un fanta-complotto) a mettere il bastone tra le ruote ai magistrati che lavorano alle presunte tangenti in Nigeria.

Rif: http://espresso.repubblica.it/inchieste/2019/06/18/news/lotti-csm-1.336114?refresh_ce


Il Csm è diventato un mostro

Un amico analista, che vuole mantenere l’anonimato, commenta il recente scandalo del Csm e l’evoluzione nel tempo di questo organo di rilievo costituzionale

Ci sono due elementi cruciali e drammatici che emergono dallo scandalo Csm (e finora sono passati sotto silenzio).

1. Il primo è il fatto che indagini, istruttorie, processi sono usati come armi, offensive o negoziali, per dare forza a strategie personali di carriera. La cosa è molto grave: significa che la libertà personale, il bene più prezioso, è trascinata a discrezione nella polvere degli scontri di potere.

2. Il secondo elemento è il rapporto sbilanciato tra magistrati e politici che si rivela negli intrighi registrati dal trojan: i magistrati danno gli obiettivi, indicano le strategie, i politici fanno da spalla o da tramite, chiedono favori, difendono mediocri convenienze. Si è sempre detto che occorreva difendere i magistrati dalle intromissioni dei politici: nelle registrazioni sembrano i magistrati a utilizzare i politici – figure ancillari, che vanno a rimorchio.

All’inizio del dopoguerra, quando si disegna il Csm, la magistratura è un corpo molto diverso dall’attuale: esce dal fascismo e da una lunga accondiscendenza, non ha ambizioni politiche, i tratti conservatori e la gerarchia prevalgono, il Csm – appena è formato – risulta null’altro che un organo di autodisciplina interna. Oggi la situazione è del tutto cambiata: dagli anni 70, quando i partiti cominciano a delegarle emergenze che non riescono a risolvere (prima il terrorismo, poi la lotta a una mafia sempre più aggressiva), la magistratura diventa sempre più influente nella società, esercita poteri crescenti, per lo più trasferiti da una politica indebolita e confusa, finché dopo il ’92-‘93 e Mani Pulite si staglia come una vetta del potere: la corruzione è elevata, al pari del terrorismo e della mafia, a emergenza drammatica che blocca la nazione e che solo la legge può arginare, i partiti perdono prestigio e – nella vana speranza di ritrovare stima – si spogliano di tutele e di status (l’abolizione dell’immunità parlamentare, la creazione di nuove tipologie illecite in ambito amministrativo ed elettorale), i magistrati assumono compiti di vigilanza quasi morale sulla vita civile e politica (che ne resta sempre più indirizzata).

In questo contesto il Csm non è più un semplice organo disciplinare – nel tempo diventa uno snodo centrale delle istituzioni. Le correnti, sotto la cipria sindacale, funzionano, come racconta il trojan di Palamara, da macchine di potere. Chi comanda al Csm alla fine, per vie indirette, condiziona la politica. Si diluisce la separazione dei poteri e in realtà il giudiziario sottomette il legislativo: il guaio è che nella gestione del potere i magistrati non sembrano affatto fare meglio dei politici.

Rif: https://www.nicolaporro.it/il-csm-e-diventato-un-mostro/

“Valutopoli” delle toghe. Il 99% è promosso alle verifiche interne

Il trucco: l’avanzamento di carriera avviene in base all’autovalutazione dell’interessato

I vertici – a partire dal Consiglio superiore della magistratura – trafficoni e collusi con la politica. 

La base – ovvero i novemila magistrati italiani – seri ed onesti, impegnati solo a lavorare in silenzio. È questa la narrazione che sta passando dello scandalo che ha investito la giustizia italiana grazie all’inchiesta della procura di Perugia sul marcio nel Csm. Quadro in larga parte corretto. Ma che non fa i conti con un male cronico della magistratura tricolore: la scomparsa di qualunque forma di meritocrazia all’interno dell’apparato giudiziario, con il sistema delle carriere trasformato in una gigantesca finzione in cui i giudici sono tutti bravi: come se non esistessero anche tra le toghe, come in ogni categoria umana, i fannulloni e gli incapaci.

Che questo appiattimento abbia contribuito a imbarbarire il sistema della rappresentanza istituzionale (cioè il Csm) che sindacale (l’Anm) della magistratura italiana è piuttosto ovvio: se il merito non conta nulla, hanno campo aperto le cordate e le capacità di relazione. E che di appiattimento si debba parlare lo dimostrano le statistiche che proprio sul sito del Csm raccontano come funziona il sistema di avanzamento dei magistrati. Un dato su tutti: negli ultimi dieci anni sono stati «promossi» il 98,22 per cento dei magistrati. Una percentuale siderale, che negli ultimi due anni disponibili (il 2015 e il 2016) ha raggiunto picchi ancora più alti: rispettivamente, il 99,56 e il 99,30 per cento.

Quale organismo possa sopravvivere a una simile prassi di promozioni indiscriminate è una domanda inevitabile. D’altronde se dalle aride cifre si passa alla lettura dei pareri che accompagnano questi avanzamenti di carriera a volte si rasenta l’effetto comico. Nei giudizi che i capi degli uffici consegnano in vista degli esami, i magistrati appaiono tutti come laboriosi, efficienti, profondi conoscitori della materia di cui si occupano. Anche quando si tratta di capre conclamate. Come diceva Francesco Saverio Borrelli: «Di alcuni mi domando non come abbiano fatto a entrare in magistratura ma come siano riusciti a laurearsi».

Questo sistema che rende todos caballeros d’altronde è figlio della cultura sessantottina che – con qualche anno di anticipo – fece irruzione nella magistratura italiana nel 1966, sopprimendo i concorsi interni e consentendo a tutti i giudici indistintamente di progredire nel grado e nello stipendio unicamente in base all’anzianità. Così i palazzi di giustizia si popolarono di consiglieri di corte d’appello che in realtà continuavano a fare i pretori o a indagare sulle rapinette. Nel 2006 il sistema venne solo apparentemente mutato: sette valutazioni di professionalità successive, una ogni quattro anni, affidate al consiglio giudiziario locale. Sulla carta, un controllo costante della qualità dei magistrati, all’insegna del «va avanti solo chi lo merita».

Ma le cose sono andate diversamente. I consigli giudiziari decidono sulla base dell’autovalutazione del diretto interessato (che è sempre positiva), e del parere del suo superiore diretto. Che tiene conto della produttività ma anche della disciplina, del conformismo, della piaggeria, e di altri umani mezzi di sopravvivenza. Così si spiega quella surreale percentuale del 99,30 per cento di promossi.

Certo, ci sono anche quelli che non ci riescono, che vengono bocciati. Ma si tratta di poche unità all’anno, di casi estremi come il protagonista della storia qua sotto. Che non vengono promossi, ma continuano a fare i giudici.

rif: http://www.ilgiornale.it/news/politica/valutopoli-delle-toghe-99-promosso-verifiche-interne-1714897.html

Pasquale Grasso: “Basta correnti dal Csm: siamo magistrati, non partiti politici”

Intervista all’ormai ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Pasquale Grasso, su quello che per molti è il punto più basso toccato dalla magistratura italiana: “La magistratura può salvare onore e credibilità solo attribuendo ai magistrati di tutti i giorni la facoltà di parlare”

Nello scandalo che ha travolto il Csm, in molti lo hanno nominato “il magistrato controcorrente”. Quello che non molla, fedele ai principi professionali. E alla fine, controcorrente Pasquale Grasso ci è andato seriamente, uscendone del tutto. Dopo aver lasciato Magistratura Indipendente, pertanto, Grasso ha dato le dimissioni anche dalla presidenza dell’Associazione nazionale magistrati, per le contrastanti posizioni emerse con i vari gruppi interni. «Credo che ci sia stata una sorta di, non voglio usare una parola forte, strumentalizzazione politica da parte delle altre correnti, assumendo che io abbia tenuto una posizione troppo morbida nei confronti dei soggetti interessati. Così facendo hanno approfittato per compiere una rideterminazione degli equilibri e dei rapporti di forza nell’Anm a loro convenienza».

Il complesso intrigo di poteri e nomine, ha riportato alla luce la ben nota questione delle distanze tra politica e magistratura. Un nervo scoperto che adesso rischia di gettare ulteriori ombre su un pilastro della società moderna, complice un confine tra le istituzioni mai rispettato. «Mi rendo conto che quanto è accaduto determina sconcerto e, di riflesso, bassa fiducia nei confronti della magistratura. In termini generali, però, e non solo per autodifesa, posso assicurare che il novantanove per cento dei magistrati sono persone che davvero ci buttano il sangue, esercitando con difficoltà e dolore l’azione del decidere».

Pasquale Grasso, perché ha deciso di lasciare la presidenza dell’Associazione Nazionale Magistrati e la corrente Magistratura Indipendente?
Ho lasciato Magistratura Indipendente, la corrente alla quale ero iscritto, perché in netto contrasto con le decisioni prese dall’assemblea in merito alle vicende in corso. E perché mi sono ritrovato a essere l’unico a ritenere di dover assumere una pubblica posizione per le dimissioni di quei colleghi, che sicuramente per quanto ci è dato conoscere, all’epoca e ancora adesso, non hanno compiuto nessun atto che abbia profili di rilevanza penale, ma solo dal punto di vista della mera opportunità – e mi riferisco specificamente alla discussione sulle nomine con un imputato della Procura della Repubblica – hanno attuato secondo me una condotta non ammissibile.
Per quanto riguarda Anm, la tornata di quattro anni per il mandato del comitato direttivo centrale che sono i trentasei massimi dirigenti dell’associazione, quest’anno spettava a Magistratura indipendente. Pertanto, in quanto espressione di una corrente, gli altri gruppi hanno ritenuto di chiedermi in definitiva di allontanarmi.

Ci può stare nella politica, io avrei sperato che tutti però si ricordassero che l’Associazione nazionale magistrati non è un’entità politica, prendendo spunto da questa situazione per dimostrare che siamo un gruppo che rappresenta le persone e non che scimmiotta le movenze della politica deteriorePasquale Grasso 

Praticamente come avviene in un partito politico…
Nonostante abbiano dichiarato di voler fare un passo avanti, andare oltre il correntismo, in realtà si sono comportati come dei veri e propri partiti politici che hanno subito ridistribuito i posti con una sorta di manuale Cencelli. Arrivati a questo punto, ho preferito presentare le mie dimissioni e non ridurre la questione al voto creando altre divisioni.

Molti hanno visto il suo gesto come un sacrificio per salvare i colleghi del Csm…
Credo che ci sia stata una sorta di, non voglio usare una parola forte, ma di strumentalizzazione politica da parte delle altre correnti, assumendo che io abbia tenuto una posizione troppo morbida nei confronti dei soggetti interessati. Così facendo hanno approfittato per compiere una rideterminazione degli equilibri e dei rapporti di forza nell’Anm a loro convenienza. Ci può stare nella politica, io avrei sperato che tutti però si ricordassero che l’Associazione nazionale magistrati non è un’entità politica, prendendo spunto da questa situazione per dimostrare che siamo un gruppo che rappresenta le persone e non che scimmiotta le movenze della politica deteriore.

Perché Magistratura Indipendente ha deciso di difenderli?
Magistratura indipendente è un gruppo di persone. Probabilmente non si è condotta in maniera razionale e con comprensione piena l’intera questione. Io ho contestato quel modo di agire, nel rispetto anche dei circa duemila magistrati che si riconoscono nelle posizioni di Magistratura indipendente, ritenendo necessaria dalla propria corrente una reazione molto più decisa. Decisa ma non scomposta e basata solo sugli elementi di stampa.

La magistratura può salvare onore e credibilità attribuendo ai magistrati di tutti i giorni la facoltà di parlare, approfittando di questo scandalo per un risveglio dell’attenzione dei magistrati stessi, che spero vengano indotti a partecipare all’attività associativa in prima persona senza delegaPasquale Grasso 

Tra i magistrati c’è stato un tutti contro tutti. Secondo lei c’è bisogno di mettere mano all’intero modello dell’organizzazione giudiziaria?
Non è stato un tutto contro tutti perché in realtà si è verificata una sollevazione dei magistrati che sono rimasti del tutto scandalizzati da questi accadimenti, accadimenti con specifico riferimento alla serata con il deputato Lotti. Penso tuttavia che ci sia stata poca consapevolezza da parte dei vertici della magistratura ove si giunga a voler affermare di essere stati inconsapevoli delle interrelazioni possibili con la politica in relazione alle nomine. Diciamo che una parte della magistratura, me compreso, si è sentita colpita nell’orgoglio, si sono sentiti violati nell’apprendere di questa circostanza che ha appannato la nostra immagine ma soprattutto la reputazione di quei magistrati che tutti i giorni lavorano.
Sono sempre contrario alle reazioni scomposte adottate sull’onda dell’emotività. Credo che quello che è emerso in questi giorni non abbia niente a che fare con il modello dell’organizzazione giudiziaria. Certo, è un discorso articolato quello dell’organizzazione giudiziaria, sicuramente si deve mettere mano alla legge elettorale del Csm perché è una legge che ha portato a degli scompensi e a un granitico dominio delle correnti sulla determinazione dei componenti del Csm.

Tutto questo non sarebbe accaduto se i suoi colleghi non avessero visto Lotti. Dove dovrebbero essere stabiliti i confini di entrambe le istituzioni?
Premesso che i rapporti tra politica e magistratura, non smetterò mai di ripeterlo, sono fisiologici, probabilmente si devono suggellare nell’ambito del Consiglio o comunque alla luce del sole. Le dico quattro città Trieste, Aosta, Cagliari e Lecce. Forse se il Csm prendesse sede in una di queste città, ci sarebbe veramente una possibilità fisica di un ritorno del rapporto tra politica e magistratura solo nella sede deputata. Ovviamente è una battuta, però mi consente di spiegare quello che in realtà è chiaro a tutti: la contiguità anche geografica con la sede del legittimo potere, dello sviluppo, dell’attività politica in Italia, può essere un qualcosa di non positivo.

Da questa situazione, la magistratura come può salvare onore e credibilità?
La magistratura può salvare onore e credibilità attribuendo ai magistrati di tutti i giorni la facoltà di parlare, approfittando di questo scandalo per un risveglio dell’attenzione dei magistrati stessi, che spero vengano indotti a partecipare all’attività associativa in prima persona senza delega. Non vedo buone prospettive al riguardo, però, in quanto mi pare che, superata l’emozione dei primi giorni che ha determinato una grandissima partecipazione dei magistrati nelle assemblee anche in sede locale, non si stanno facendo passi verso una liberazione dal conformismo dei magistrati. Al contrario, nonostante le buone intenzioni, magari sussistenti, dichiarate dai vari gruppi correnti che adesso governano Anm, l’impressione è quella di una completa assenza della volontà di allentare la presa e il consenso dei magistrati, lasciando intatta la facoltà di veicolare gli indirizzi.

Mi rendo conto che quanto è accaduto determina sconcerto e, di riflesso, bassa fiducia nei confronti della magistratura. In termini generali, però, e non solo per autodifesa, posso assicurare che il novantanove per cento dei magistrati sono persone che davvero ci buttano il sangue, esercitando con difficoltà e dolore l’azione del deciderePasquale Grasso

La posta in palio è anche la fiducia riposta dai cittadini nei confronti della giustizia…
Veniamo da un trentennio di contrasti tra politica e magistratura, fondati o infondati che siano stati. Mi rendo conto che quanto è accaduto determina sconcerto e, di riflesso, bassa fiducia nei confronti della magistratura. In termini generali, però, e non solo per autodifesa, posso assicurare che il novantanove per cento dei magistrati sono persone che davvero ci buttano il sangue, esercitando con difficoltà e dolore l’azione del decidere. Come dovremmo risalire la china? Continuando a fare il nostro lavoro con dignità e legalità, andando avanti per la giusta strada.

A margine di questa storia, la conclusione sembra avviarsi in un colpo di spugna e zero sanzioni per i giudici…
Dobbiamo partire dal fatto che quello che è accaduto veramente ci viene riferito da due giornali. Palamara è un collega che è stato indagato per ipotesi di corruzione. Lui come gli altri interessati sono venuti a conoscenza dei fatti grazie alla stampa. Per quanto autorevoli, stiamo parlando di cose di cui non sappiamo niente, stiamo parlando di notizie centellinate un pochino al giorno che non sappiamo se sono state censurate o omesse in alcune parti. Iniziare a dire che ci sono due pesi e due misure, i magistrati se la cavano e i politici no, è completamente errato, applicherei le regole di giudizio del giudice onesto. 
So per certo che gli stessi soggetti, che hanno partecipato alla famosa cena o dopocena con Lotti e Ferri, non hanno ancora letto le intercettazioni che ci sono a proprio carico. Anche quando i consiglieri del Csm si dichiararono molto soddisfatti del provvedimento di auto sospensione dei soggetti coinvolti, ebbi modo di dire pubblicamente che io non lo era affatto, in quanto a mio avviso si trattava di una mossa assurda da parte loro, al quale doveva susseguire la richiesta di dimissioni. Avrebbero dovuto andare a fondo, leggere gli atti e dare conto a tutti e comunicare a tutti il contenuto degli atti di cui avevano avuto notizia. Perché accontentarsi dell’auto sospensione mi sembrava una contraddizione in termini e attualmente continua a vivere come contraddizione.

Rif: https://www.linkiesta.it/it/article/2019/06/24/pasquale-grasso-csm-lotti-ferri-magistratura/42637/

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Chi ha creato la Repubblica dei pm

E’ stato il vuoto della politica ad aver prodotto le condizioni perfette per rafforzare il potere giudiziario e un paese ostaggio del protagonismo dei magistrati. La guerra al Csm spiegata con una storia sudamericana

I social network, si sa, brulicano di hater che, celati sotto i nickname più inverosimili, avvelenano le discussioni online con un atteggiamento aggressivo e sovente con insulti improntati a un odio feroce e immotivato. Non risparmiano nessuno: attaccano politici, artisti, scrittori, manager, professionisti, atleti e star dello spettacolo, come se non ne tollerassero il successo. Fateci caso, solo una categoria sembra sfuggire alla tendenza vendicativa dei social che trasforma, sul web, il garbato vicino di casa in un fustigatore dei poteri forti: i magistrati, che sembrano (buon per loro e per tutti noi) immuni all’ostilità che avvelena i social media. Anche di fronte alle “degenerazioni correntizie”, ai “giochi di potere” e ai “traffici venali” denunciati dal vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, David Ermini, dopo che l’indagine per corruzione avviata dalla procura di Perugia nei confronti dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara ha svuotato di ogni autorevolezza il vecchio e austero Csm e costretto ben cinque dei suoi componenti a fare un passo indietro.

A ben guardare, è una vecchia storia. Sono celebri i versi della poesia “Il Pci ai giovani” con i quali Pier Paolo Pasolini, all’indomani degli scontri di Valle Giulia, a Roma, si schierava con i poliziotti contro gli studenti: “Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete!”. E ancora sul Corriere della Sera (“Perché il processo”, 28 settembre 1975): “Dunque, al centro e al fondo di tutto, c’è il problema della magistratura e delle sue scelte politiche. Ma, mentre contro gli uomini politici, tutti noi, cari colleghi della ‘stampa’, abbiamo coraggio di parlare, perché in fondo gli uomini politici sono cinici, disponibili, pazienti, furbi, grandi incassatori, e conoscono un sia pur provinciale e grossolano fair play, a proposito dei magistrati tutti stiamo zitti, civicamente e seriamente zitti. Perché? Ecco l’ultima atrocità da dire: perché abbiamo paura”.

Il fatto, come mi ha fatto notare un amico intelligente, è che i magistrati in Italia (almeno dal “pronunciamento” del pool milanese, all’epoca del decreto Conso, quando i magistrati di Milano apparirono in tv minacciando le dimissioni, l’opinione pubblica e i giornali gridarono allo scandalo, il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro per la prima volta nella storia repubblicana rifiutò di firmare un decreto-legge e la classe politica tornò sui suoi passi e non votò il “decreto salva ladri”; il che fu probabilmente il maggior punto di caduta del potere politico) hanno lo stesso ruolo “regolatore” dei militari in Sudamerica. Con le debite proporzioni, s’intende. In America latina, i militari hanno instaurato regimi dittatoriali sanguinari, generalmente a seguito di un colpo di Stato che ha rovesciato il precedente regime: tutto un altro paio di maniche. Resta il fatto che, in Sudamerica, le giunte militari il più delle volte hanno legittimato la presa del potere con l’intento di portare stabilità politica alla nazione “salvandola” dalla minaccia del comunismo (o del capitalismo, in ogni caso di “ideologie pericolose”). In Italia, invece, per dirla con Giuliano Ferrara, “da trent’anni circa il tamburo della politica italiana lo batte la mano di un magistrato o di un pool”, il cui intervento è legittimato dalla necessità di “salvare” il paese dalla corruzione dilagante e dalla criminalità diffusa. Che l’Italia sia uno dei paesi più corrotti al mondo viene dato per scontato e non può essere messo in discussione. Eppure le cose, grazie al cielo, non stanno così. Lo rivelava (ancora una volta) l’anno scorso il Rapporto Eurobarometro sulla corruzione; e anche Piergiorgio Corbetta (in un articolo sul Mulino: “Siamo un paese corrotto?”) constatava uno scarto assai significativo tra corruzione percepita e corruzione reale: gli italiani si autorappresentano come corrotti pur essendo invece nella media europea quanto ad esperienza diretta di fenomeni corruttivi. Nell’ultima graduatoria di Transparency International, basata proprio su un indice di percezione, risultiamo al 69esimo posto con l’85 per cento degli italiani convinti che istituzioni e politici siano corrotti: eppure, alla domanda specifica, posta a un campione di cittadini, se negli ultimi 12 mesi avessero vissuto, direttamente o tramite un membro della propria famiglia, un caso di corruzione, la risposta è stata negativa nella stragrande maggioranza dei casi, in linea con le altre nazioni sviluppate. Insomma, in Italia i livelli di corruzione percepiti sono decisamente superiori a quelli reali: soffriamo della “sindrome del Botswana”, cioè della tendenza ad accostarci a stati difficilmente assimilabili al nostro per benessere e ricchezza. E’ quanto è emerso anche dalla ricerca curata da Giovanni Tartaglia Polcini per l’Eurispes (“La corruzione tra realtà e rappresentazione. Ovvero: come si può alterare la reputazione di un paese”). Secondo Tartaglia Polcini, nel nostro paese si verifica “il “Paradosso di Trocadero”: più si perseguono i fenomeni corruttivi sul piano della prevenzione e le fattispecie di reato sul piano della repressione, maggiore è la percezione del fenomeno. L’effetto distorsivo collegato a questo assunto ha concorso a penalizzare soprattutto gli ordinamenti più attivi dal punto di vista della reazione alla corruzione in tutte le sue forme”. In altre parole, l’Italia, ovviamente, non è immune dalla corruzione (che anzi ne ha caratterizzato la storia antica e recente), ma il nostro paese è meno corrotto degli altri, reagisce alla corruzione più degli altri, combatte il malaffare e oggi lo previene anche meglio degli altri.

Perché, allora, le cose stanno così? Dipende, ovviamente, da molti fattori che hanno a che fare con il nostro sistema giudiziario. Quella che è stata definita la “explosion judiciaire” ha assunto, infatti, in Italia tratti peculiari senza riscontro in altri ordinamenti. Alcune correnti della magistratura proclamano da tempo l’idea di una funzione giudiziaria non solo di tutela dell’individuo, ma anche di “garantismo collettivo”, quasi contrapposta ad altri poteri dello stato, con effetti di delegittimazione sia della funzione legislativa che di quella di governo; le garanzie di indipendenza della nostra magistratura sono tra le più elevate nell’ambito dei regimi democratici consolidati (difatti, per trovare una magistratura con prerogative simili bisogna considerare quella iraniana); e uno studioso attento come Carlo Guarneri scriveva che “il rafforzamento del potere giudiziario, che ha caratterizzato il nostro sistema politico negli ultimi quarant’anni, ne ha reso problematica la compatibilità con i princìpi di fondo di un regime democratico (…) rendere il potere giudiziario compatibile con i principi di una democrazia costituzionale non significa renderlo politicamente responsabile allo stesso modo di chi esercita funzioni esecutive o legislative (…). Significa però che vanno approntati dei contrappesi idonei a limitare questo potere e a far sì che si esplichi in modo da non indebolire il sistema democratico, cosa che avverrebbe inevitabilmente se la magistratura avesse sistematicamente il sopravvento sulle altre istituzioni”. Insomma, le storture del sistema sono sotto gli occhi di tutti, ma la magistratura a tutti piace così, purché colpisca solo la parte politica avversa. Infatti, l’ordinamento giudiziario c’entra solo fino a un certo punto. C’è qualcosa di più profondo. Dal crollo della mediazione politica tradizionale, da quando il vecchio sistema ha cominciato a sgretolarsi e molte altre trasformazioni sociali hanno generato insicurezza e spaesamento, il nostro paese è pieno di Savonarola che tuonano dal pulpito con toni apocalittici e invitano al pentimento, alla conversione, a fare penitenza.

Da allora, il “popolo” dalle piazze virtuali invoca la moralizzazione (e il castigo). Insomma, il populismo ha trionfato sulle rovine del sistema politico tradizionale e antiche e radicate concezioni del mondo hanno rialzato la testa. Niente di sorprendente: il populismo e il moralismo sono sempre andati di pari passo. E il copione, in ogni tempo e in ogni luogo è sempre lo stesso: c’era una volta un popolo puro; la modernità, la secolarizzazione, il liberalismo, il capitalismo, lo hanno corrotto; finché un leader, un profeta, verrà a redimere il popolo predestinato, a cacciare con la spada i peccatori e ad aprire le porte della terra promessa. Dopo anni di modernizzazione impetuosa e disorientamento causato dalla globalizzazione, dall’innovazione tecnologica e dai flussi migratori e comunicativi, il populismo promette protezione, identità, omogeneità, Dio, patria e famiglia: una utopia reazionaria, la restaurazione dell’unità organica di un passato mitico.

Come si affanna a ripetere il prof. Loris Zanatta, il popolo dei populisti è, infatti, omogeneo, privo di dissensi e dissonanze; è una “comunità organica”. In altri termini, una comunità che non ha niente a che fare con un contratto esplicito, volontario e razionale tra i suoi membri, ma la cui vita rifletterebbe un ordine naturale di coesione e unità, che vive i dissensi e il conflitto come minacce alla sua stessa esistenza. Una visione del mondo agli antipodi della società aperta. E sono in molti quelli che pensano che anche oggi lo stato abbia il dovere di moralizzare e omogeneizzare il popolo; uno stato etico, un “grande fratello” che vigila e dirige, paterno con i sudditi, spietato con gli eretici.

E’ il modello sudamericano. Il modello vagheggiato dai Cinque stelle. Del resto, le Olimpiadi o le grandi infrastrutture non si possono fare perché sono una porta aperta alla corruzione, non si fa il ponte sullo Stretto perché c’è la mafia, non si vogliono le fabbriche perché possono inquinare. Siccome vigilare e fare le cose per bene è difficile, meglio non fare nulla e non esporsi alle tentazioni. Anche a costo di impoverirsi.

Del resto, egualitarismo e sottomissione dell’individuo alla collettività e allo Stato, oltre che il disprezzo della cultura, furono anche le principali caratteristiche della rivoluzione culturale cinese. Il principale obiettivo del regime era infatti la creazione di una società disciplinata. Non per caso, l’ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt si disse letteralmente “scandalizzato” dalla “sfrontatezza con cui l’individualità veniva soffocata”. E come ricorda ancora il prof. Zanatta, durante la Guerra Fredda, in America Latina “fu perlopiù l’establishment militare a rimodulare il paradigma populista” e individuare allora “nei suoi fautori i nemici dell’integrità e identità nazionali”. Infatti, “la cronica e convulsa mobilitazione sociale che i populismi alimentavano, spesso divenuta violenta dopo la rivoluzione cubana”, sembrò loro “la principale causa dei conflitti che laceravano la nazione portandone l’organismo alla dissoluzione”. Ma proprio le Forze armate erano “le più irriducibili depositarie di una concezione sociale organica, almeno nel mondo iberico, dato che in Italia l’esito della Seconda guerra mondiale ne aveva notevolmente ridimensionato il ruolo”. E come tali, proprio le Forze armate avevano “tenuto spesso a battesimo i movimenti populistici, i cui leader erano in molti casi usciti dalle caserme, giudicandoli salutari alla restaurazione dell’armonia sociale integrando ‘il popolo’ nella comunità omogenea della nazione”. “Ma – prosegue Zanatta – gli stessi militari giudicavano ora urgente fissare un limite alla perpetua agitazione che i populismi causavano in nome del ‘popolo’ sempre, sia chiaro, in funzione dell’armonia sociale della nazione”.

Salta agli occhi, dunque, “il ferreo nesso tra la persistenza della visione populista e il ricorrente militarismo nel mondo latino. Mondo in cui i militari, che più di ogni altra istituzione furono fin dalle origini perno insieme alla Chiesa, assursero a regolatori dell’equilibrio in seno alla comunità del popolo. Ora integrandovi i ceti che di volta in volta si affacciavano alla ribalta, come fecero portando al potere i movimenti populisti di tipo peronista o fascista, ora ponendo un freno agli effetti disgregatori di quell’integrazione attuando reazioni incentrate sul rispetto della gerarchia degli organi del corpo sociale, come fecero rovesciando quegli stessi regimi ed altri affini che avevano tenuto a battesimo”.

In Italia, a ben guardare, c’è un nesso tra la visione populista che sembra avere conquistato il paese e un apparato che tende a imporre all’intero assetto della società e dello Stato una sorta di pax iudiciaria che si ritiene indispensabile per fronteggiare il nemico della Repubblica (ieri il terrorismo e la criminalità organizzata, oggi la corruzione, il malaffare e, addirittura, l’incompetenza dei politici).

Ora che il contesto internazionale è mutato, che l’ordine mondiale che abbiamo ereditato dalla Seconda guerra mondiale è quasi irriconoscibile, ora che lo scontro è fra chi vuole più Europa e chi vuole sfasciare tutto, ora che l’Italia rischia di deragliare dai binari storici della nostra politica estera, è difficile, tuttavia, pensare che il nostro paese possa continuare, per usare il titolo di un libro di Domenico Marafioti, a muoversi “a passo di giudice”.

Le evoluzioni del nostro sistema politico riflettono inevitabilmente quelle del sistema internazionale e, com’è accaduto in America Latina con la fine della Guerra Fredda, le cose sono destinate a cambiare. E forse non è un caso che l’inchiesta di Perugia si sia trasformata in una bomba in grado di ridurre in macerie Palazzo dei Marescialli. A meno che il riemergere del populismo come espressione moderna di un retaggio antico, di una visione del mondo che ha permeato in passato il mondo occidentale, e la concomitante “straripante presenza dell’ordine dei magistrati fino a configurare – per latitudine di attributi e di interventi – quasi uno ‘stato nello stato’” (Marafioti), abbiano a che fare proprio con il ripiegamento, la ritirata, degli Stati Uniti e dell’ordine liberale. Da un pezzo gli americani sono stanchi del mondo e non vogliono più portare su di sé il peso della responsabilità globale, da un pezzo vogliono tornare a essere una nazione normale, più in sintonia con i propri bisogni che con quelli del vasto mondo; e ora l’America di Trump si rifugia nel nazionalismo, non parla più di diritti umani e smette di premere sui dittatori. Ma, come rimarcava Larry Diamond sul Guardian, è proprio a causa di questo vuoto, è per colpa di questa assenza, che il dispotismo si fa largo e le democrazie vengono destabilizzate, con un’azione lenta e progressiva. Come sanno i lettori del Foglio, “Superpowers don’t get to retire”.

Rif: https://www.ilfoglio.it/giustizia/2019/06/07/news/chi-ha-creato-la-repubblica-dei-pm-259225/

Da rappresentante dello Stato contro la mafia garganica allo scandalo corruzione nella Procura di Trani. La parabola di Domenico Seccia

Lo scandalo “toghe sporche” ha investito anche lui, Domenico Seccia, magistrato noto in provincia di Foggia per essersi occupato della mafia garganica e non solo. Procuratore capo di Lucera, il barlettano Seccia, 60 anni, è stato anche sostituto procuratore a Bari nella Direzione Distrettuale Antimafia, occupandosi proprio della criminalità del Gargano. Ha scritto anche due libri sulla mafia del promontorio, la stessa mafia che avrebbe strumentalizzato per spaventare l’imprenditore di Corato, Flavio D’Introno colui che ha poi svelato il presunto sistema corruttivo nella Procura di Trani, ideato dal gip Michele Nardi e messo in atto anche dal pm Antonio Savasta.

Seccia, che dopo Lucera andò a ricoprire l’incarico di procuratore a Fermo prima della nomina nel 2018 a Sostituto Procuratore Generale della Cassazione, è stato tirato in ballo da Savasta il quale avrebbe confermato che l’ex pm antimafia faceva parte della commissione tributaria che a Bari, tra il 2009 e il 2010, si occupò dei ricorsi presentati da Flavio D’Introno su alcune cartelle esattoriali del valore totale di circa 8 milioni di euro: ricorso accolto in primo grado, sentenza ribaltata in appello e confermata in Cassazione.

È stato proprio D’Introno, in seguito, a svelare un giro di corruzione in atti giudiziari che ha portato all’arresto dell’ex gip Michele Nardi – ritenuto dagli inquirenti l’ideatore della “macchina delle tangenti” – e dell’ex pm Antonio Savasta, quest’ultimo ai domiciliari.

D’Introno avrebbe versato mazzette ai magistrati per ‘aggiustare’ i procedimenti giudiziari che lo riguardavano. La vicenda sarebbe incentrata su una serie di episodi corruttivi commessi da magistrati che all’epoca erano in servizio presso la commissione tributaria. Alcuni particolari scottanti – riportati da Repubblica – sono emersi durante l’incidente probatorio di D’Introno davanti al gip leccese, Giovanni Gallo.

“Dopo gli arresti e il mio interrogatorio del 2 febbraio ho ricevuto minacce da un altro magistrato – ha detto l’imprenditore – e per questo motivo ho presentato denuncia alla Procura di Bari”. Che non ha esitato a convocarlo e a farli mettere nero su bianco le pesanti dichiarazioni su quel personaggio che per spaventarlo avrebbe fatto riferimento alla mafia garganica.

Di tali minacce – si legge su Repubblica – l’imprenditore aveva parlato anche con lo stesso Savasta durante un colloquio a novembre, registrato e consegnato ai carabinieri e riportato nell’ordinanza di custodia cautelare del gip Gallo. “Pure questo qua, che ti dice che ti manda la mafia garganica…”, affermava il pm. E D’Introno ribadiva: “Quello è proprio un animale”. 

Rif: https://www.immediato.net/2019/06/20/da-rappresentante-dello-stato-contro-la-mafia-garganica-allo-scandalo-corruzione-nella-procura-di-trani-la-parabola-di-domenico-seccia/

Magistrati pugliesi corrotti, spunta noto pm. “Un animale. Per spaventarmi diceva di mandarmi la mafia garganica”

Si allarga e coinvolgerebbe anche importanti magistrati antimafia passati per Foggia, l’inchiesta sul “sistema Trani” che nelle scorse settimane ha svelato un giro di corruzione in atti giudiziari portando all’arresto dell’ex gip Michele Nardi – ritenuto dagli inquirenti l’ideatore della “macchina delle tangenti” – e dell’ex pm Antonio Savasta, quest’ultimo ai domiciliari.

Tutto è nato dalla denuncia dell’imprenditore di Corato, Flavio D’Introno il quale avrebbe versato mazzette ai magistrati per ‘aggiustare’ alcuni procedimenti giudiziari. La vicenda sarebbe incentrata su una serie di documenti riguardanti presunti episodi corruttivi commessi da magistrati che sono stati in servizio presso la commissione tributaria. Alcuni particolari, già svelati da Repubblica Bari, sono emersi durante l’incidente probatorio di D’Introno davanti al gip leccese, Giovanni Gallo.

“Dopo gli arresti e il mio interrogatorio del 2 febbraio ho ricevuto minacce da un altro magistrato – ha detto l’imprenditore – e per questo motivo ho presentato denuncia alla Procura di Bari”. Che non ha esitato a convocarlo e a farli mettere nero su bianco le pesanti dichiarazioni su quel personaggio che per spaventarlo avrebbe fatto riferimento alla mafia garganica. Si tratterebbe di un noto magistrato, esperto della faida del Gargano, presente per anni in provincia di Foggia e poi trasferito in altra città.

Barlettano che dall’estate scorsa è sostituto procuratore generale presso la Cassazione. Alcuni anni fa, è stato membro della commissione tributaria di Bari. Quella che ha annullato le cartelle esattoriali da 8 milioni dell’imprenditore di Corato, Flavio D’Introno.

Di tali minacce – si legge su Repubblica – l’imprenditore aveva parlato anche con lo stesso Savasta durante un colloquio a novembre, registrato e consegnato ai carabinieri e riportato nell’ordinanza di custodia cautelare del gip Gallo. “Pure questo qua, che ti dice che ti manda la mafia garganica…”, diceva il pm. E D’Introno ribadiva: “Quello è proprio un animale”. (in alto, la Procura di Trani)

Rif:https://www.immediato.net/2019/06/20/magistrati-pugliesi-corrotti-spunta-noto-pm-un-animale-per-spaventarmi-diceva-di-mandarmi-la-mafia-garganica/

Consiglio di Stato, indagato il numero due “in pectore”

Consiglio di Stato, indagato il numero due “in pectore”

Sergio Santoro accusato di corruzione in atti giudiziari È tra i candidati favoriti a presidente aggiunto. La nomina prevista domani

C’è un filone dell’inchiesta sul Consiglio di Stato tenuto riservatissimo, ma che rischia di diventare un terremoto: tra gli indagati infatti c’è un pezzo da novanta di Palazzo Spada. Si tratta del presidente di Sezione Sergio Santoro, accusato dai pm romani di corruzione in atti giudiziari.

È una notizia che irrompe in un momento delicato: Santoro è tra i candidati a diventare presidente aggiunto, ossia il vice di Filippo Patroni Griffi. Domani si riunisce il plenum del Cpga, il Csm dei giudici amministrativi e il giudice sembra essere il favorito, nonostante abbia presentato ricorso contro la nomina di Patroni Griffi.

A Palazzo Spada dal 1981, Santoro è stato consigliere giuridico e Capo di Gabinetto in varie Amministrazioni dal 1983 al 2008, anche di Silvio Berlusconi, per “l’attività di monitoraggio e di trasparenza legislativa dell’azione di governo”.

Sul motivo della sua iscrizione nel registro degli indagati a Roma si tiene il massimo riserbo: nessuno, a parte i magistrati, conosce la contestazione. Tantomeno Santoro, che però ha ricevuto una proroga alle indagini qualche giorno fa.

Quello in cui è coinvolto è un nuovo capitolo della complessa indagine su una rete di avvocati in contatto con alcuni magistrati del Consiglio di Stato.

Nell’ambito di questa inchiesta, i pm hanno approfondito anche le parole di Piero Amara, in passato difensore anche dell’Eni, il quale ha fatto alcune rivelazioni, finite in verbali secretati. Da questo ed altri spunti investigativi sono partiti i diversi filoni. Oltre il consigliere Santoro, ci sono altri soggetti che nei giorni scorsi hanno ricevuto la proroga per le indagini. Tra questi c’è Filippo Paradiso: dipendente del Ministero dell’Interno, è anche vicepresidente nel Comitato esecutivo del Salone della Giustizia, che ogni anno organizza seminari e workshop su diversi temi e con ospiti importanti come la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, presente alla chiusura dell’ottava edizione dello scorso anno.

Paradiso, come riporta la proroga, è indagato per millantato credito. Anche in questo caso, è segreto il motivo dell’iscrizione.

Lo stesso vale per l’ex governatore della Regione Siciliana, Raffaele Lombardo – accusato di corruzione in atti giudiziari e rivelazione di segreto d’ufficio – o dell’ex ministro, con il governo Berlusconi, Francesco Saverio Romano, indagato solo per rivelazione di segreto d’ufficio.

“Quello che dispiace – ha commentato il legale di Santoro, l’avvocato Pierluigi Mancuso – è constatare la spiacevole coincidenza tra la notifica della proroga, e la diffusione della notizia, e lo svolgimento del plenum del Consiglio di Stato, fissato per venerdì mattina e da cui sarebbe uscito Santoro presidente aggiunto”. In realtà la proroga è stata notificata a ben 31 indagati. Continua il legale Mancuso: “Il Presidente pone la massima fiducia nella magistratura. Peraltro conoscendo la serietà del pm Paolo Ielo, è sicuramente una disgraziata coincidenza temporale, ma certo rende la vicenda doppiamente amara. Infatti è evidente che la notizia crei già di per sé un danno rilevantissimo. Non conosciamo la contestazione ma sono certo che c’è qualcuno che ha calunniato Santoro, uomo onesto e magistrato inflessibile”.

Rif: https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2019/01/24/consiglio-di-stato-indagato-il-numero-due-in-pectore/4919803/

Corruzione, il pm: “Il giudice Virgilio aggiustò sentenze per 388 milioni. E lo aiutarono a nascondere 750mila euro”

Corruzione, il pm: “Il giudice Virgilio aggiustò sentenze per 388 milioni. E lo aiutarono a nascondere 750mila euro”

L’accusa ruota attorno a un trasferimento di denaro da un conto svizzero intestato all’ex magistrato oggi in pensione alla Investment Eleven Ltd, riconducibile ad Amara e Calafiore. In cambio avrebbe emesso numerosi provvedimenti in sede giurisdizionale, monocratica e collegiale, verso soggetti i cui interessi erano seguiti dai due avvocati

Si era fatto aiutare da Piero Amara e Giuseppe Calafiore a nascondere al fisco 751mila euro e in cambio avrebbe aggiustato tre sentenze in maniera favorevole alle loro società. È l’accusa che la Procura di Roma muove a Riccardo Virgilio, ex presidente di sezione del Consiglio di Stato indagato per corruzione in atti giudiziari in concorso nell’operazione che ha portato in carcere 15 persone con accuse che vanno dall’associazione a delinquere alla corruzione in atti giudiziari.

L’accusa ruota attorno a un trasferimento di denaro di 751.271,29 euro da un conto svizzero intestato all’ex giudice oggi in pensione alla Investment Eleven Ltd, intercettato dall’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia. La società, scrivono i magistrati di piazzale Clodio, ha sede a Malta ed è riconducibile ad Amara e Calafiore, ma risulta amministrata dal prestanome
Marco Salonia.  In base a quanto ricostruito dagli inquirenti i due avevano proposto a Virgilio di investire quel denaro e qualora fosse andata male l’operazione, sarebbe stata compensata da una fidejussione personale dei due verso il giudice. L’investimento coinvolgeva anche la Racing Horse S.A., società dell’imprenditore Andrea Bacci (non indagato), in passato vicino a Tiziano Renzi. Per chi indaga l’utilità corruttiva sta nella promessa della garanzia personale fatta dai due avvocati se l’affare fosse andato male.

“L’operazione di finanziamento  – è la tesi dei procuratori aggiunti Paolo Ielo, Rodolfo Sabelli e Giuseppe Cascini – ha rappresentato una concreta utilità per Virgilio perché l’ingente somma di denaro detenuta da Virgilio su un conto svizzero induce a ritenere che la stessa sia, quanto meno, non dichiarata al fisco” e perché “di certo il trasferimento della somma di denaro presso la società maltese rappresenta un ulteriore passaggio per rendere più difficile al fisco la sua individuazione”.

Cosa avrebbe fatto il giudice in cambio? Secondo la tesi accusatoria, “Virgilio avrebbe ricevuto tali utilità per la sua funzione di Presidente di Sezione del Consiglio di Stato – scrive il Gip – nonché per avere emesso e per emettere numerosi provvedimenti in sede giurisdizionale, monocratica e collegiale, verso soggetti i cui interessi erano seguiti dagli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore”. In base ai documenti acquisiti dalla Guardia di Finanza, proseguono i magistrati, “tutti i provvedimenti emessi dal Virgilio come estensore o come Presidente del Collegio, nell’arco temporale precedente e successivo all’erogazione delle utilità descritte, hanno prodotto effetti favorevoli nella sfera delle due società”, che avevano rapporti con quelle di Amara e Calafiore.

Gli inquirenti si riferiscono a due vicende pendenti davanti al Consiglio di Stato: “Il contenzioso Ciclat, società in rapporti di fatturazione con le società del gruppo
Amara-Calafiore” e “il contenzioso Exitone S.p.a, società in rapporti di fatturazione con le società del gruppo Amara-Calafiore, detenuta dalla S.T.l. Spa, riconducibile a Bigotti Ezio“, anche lui tra gli arrestati. Proprio il gruppo Bigotti sarebbe stato favorito in modo tale da ottenere appalti da 388 milioni di euro, nell’ambito delle gare bandite da Consip.

Virgilio ha un ruolo anche nella vicenda che ha contrapposto il consorzio Open Land – che stava costruendo il centro commerciale Fiera del Sud – e il comune di Siracusa. Nel 2013, da presidente del consiglio di giustizia amministrativa della Regione Siciliana Virgilio aveva riconosciuto alla società un risarcimento da 35 milioni di euro.  “In tale contenzioso – si legge nell’ordinanza di custodia cautelare – Virgilio era il Presidente del Collegio, mentre difensore della società era l’avvocato Attilio Toscano, collega di studio di Amara. Inoltre il legale rappresentante della società Open Land era Formica Giuliana, madre di Frontino Concetta, compagna di Calafiore”.

Rif:https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/02/06/corruzione-il-pm-il-giudice-virgilio-aggiusto-sentenze-per-388-milioni-e-lo-aiutarono-a-nascondere-750mila-euro/4140631/

Caso Csm: per i giudici zero carcere e colpo di spugna, per i politici la ghigliottina. Adesso avete capito chi comanda in Italia?

La magistratura deve voltare pagina, ha detto giustamente il presidente della Repubblica Mattarella. Ma uno scandalo di questa portata, se avesse colpito la politica, avrebbe portato a reazioni ben più pesanti. La magistratura se la cava con un’autoriforma

Voltare pagina. Finalmente Sergio Mattarella ha parlato dello scandalo Csm, di fronte al plenum stesso del Consiglio Superiore della Magistratura. E l’ha fatto ricordando chiedendo agli stessi giudici di far comprendere al Paese “che la Magistratura italiana, e il suo organo di governo autonomo, previsto dalla Costituzione, hanno al proprio interno gli anticorpi necessari e sono in grado di assicurare, nelle proprie scelte, rigore e piena linearità”. In altre parole, di avviare un percorso di autoriforma necessario a ridare autorevolezza e dignità all’organo di autogoverno dei magistrati.

Bene, bravo, bis. Però pensateci un attimo: e se uno scandalo simile avesse colpito il Parlamento, o il governo? Se si fosse scoperto qualcosa di analogo – usiamo sempre le parole del Presidente – a un “quadro sconcertante e inaccettabile”, un “coacervo di manovre nascoste” per governare la magistratura secondo logiche spartorie, posizionando i giudici amici nelle procure giuste per azzoppare le indagini, o per condizionare la politica nelle sue scelte, ecco: vi sarebbe bastata l’auto-riforma? Avreste accettato il “colpo di spugna” della “soluzione politica” al problema? Un bel “si volta pagina”, tutti a casa e non rompeteci più le scatole?

Se uno scandalo simile avesse colpito il Parlamento, o il governo, vi sarebbe bastata l’autoriforma?

No, non l’avreste accettato, e non l’avete accettato – tra il 1992 e il 1993 – proprio perché è stata la magistratura a mettersi di mezzo, a condizionare i tentativi di auto-riforma del potere legislativo, a premere affinché non si definisse la sistematicità del problema, a picchiare con insistenza sul tasto della responsabilità penale che non poteva essere cancellata da un colpo di spugna. Se questo è il 1992 della magistratura – il momento cioè in cui si disvela cosa succede dietro il sipario -, di sicuro non è il suo 1993, fatto di misure draconiane, di poteri che strabordano e, letteralmente, dettano legge, di processi sommari e carcerazioni preventive usate come ghigliottine per il popolo.

Perché a nessuno deve sfuggire che non un giudice, nemmeno Palamara, il protagonista di questa storia “sconcertante e inaccettabile” si è fatto un minuto di carcerazione preventiva, sebbene forse il pericolo di inquinamento delle prove possa sussistere più qui che altrove. E a nessuno deve sfuggire, per esempio, che Pietro Tatarella, consigliere regionale di Forza Italia con una bambina di due anni che lo aspetta a casa, è in regime di carcerazione preventiva dal 7 di maggio (oggi è il 22 di giugno) per una piccola storia di corruzione e consulenze. O che, per citare un altro caso scandaloso, il sindaco di Lodi Simone Uggetti abbia passato un mese tra San Vittore e gli arresti domiciliari per un bando truccato di una piscina pubblica nel quale non c’era ombra di arricchimento personale.
Ribadiamo il concetto: quello che per la politica è un colpo di spugna, per la magistratura è un necessario percorso di autoriforma. E il carcere preventivo, necessario per la politica, diventa improvvisamente non necessario quando a essere coinvolti sono i magistrati. 

la magistratura si sta concedendo dei lussi che alla politica non ha concesso. Nel silenzio-assenso della politica

Per carità: non facciamo i garantisti a targhe alterne. Il giorno che in Italia non servirà più sbattere in galera la gente prima di qualsivoglia condanna sarà un grande giorno. E il giorno in cui a tutti i poteri, di fronte a una crisi sistemica, sarà concesso di auto-riformarsi, senza che un altro potere si arroghi il diritto di decapitarli e di etero-dirigerne l’agenda, sarà un giorno ancora più grande. Per ora, ci limitiamo a dire che la magistratura si sta concedendo dei lussi che alla politica non ha concesso. Nel silenzio-assenso della politica.
È abbastanza, per capire chi comanda in Italia?

Rif:https://www.linkiesta.it/it/article/2019/06/22/csm-mattarella-giudici-rifoma-giustizia/42629/